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samedi, 20 octobre 2012

La democrazia dell'oppio

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La democrazia dell'oppio

di Giulietto Chiesa


Fonte: lavocedellevoci

   
   
Nei giorni scorsi ho ricevuto un'informazione molto interessante, direi perfino curiosa, se non fosse che e' anche tragica. Pare - ma e' sicuro - che Hamid Karzai, il presidente dell'Afghanistan, nelle ultime settimane abbia segretamente sottoposto i 34 governatori delle province afghane a una prova di scrittura e lettura, verificando che ben 14 tra essi sono analfabeti. Non mi e' stato detto chi fossero i 14 tapini, ma la curiosita' e' cresciuta. Perche' mai Karzai ha improvvisamente sentito il bisogno di conoscere il livello d'istruzione dei suoi governatori? Che gli e' successo (intendo dire, a Karzai)?

A me e' venuto il sospetto che lo abbia fatto per toglierne di mezzo alcuni. Segnatamente, magari, quelli che non desiderano che egli si ricandidi (non essendo Karzai ricandidabile, a termini di costituzione, per una terza volta). Non si sa mai. Metti caso che i governatori disposti ad appoggiare un cambio costituzionale siano in numero attualmente insufficiente: ecco che gli analfabeti, che forse non sono cosi' tanti, o cosi' pochi, potrebbero essere accompagnati alla porta e sostituiti.

Insomma la prova di alfabetismo potrebbe essere nient'altro che un trucchetto per cambiare la costituzione afghana - del resto molto giovane - e restare al potere ancora qualche annetto.

Niente stupore. Se fosse cosi' potremmo solo dire che Karzai sta imitando le gesta di George Bush, quello che lo ha portato al potere. Anche Bush il giovane trucco' le elezioni: sia quelle del 2000, sia quelle successive del 2004. Dunque, perche' non imitarlo?

Poi ho ricevuto un'altra informazione, anch'essa attendibile ma un tantino diversa. Ve la trasmetto. Karzai ha licenziato 10 governatori. Non so se fossero dieci analfabeti, ma pare che fossero "morosi". Il che e' peggio. Morosi nel senso che ciascuno di loro deve pagare, e ha pagato, circa 30.000 dollari al mese personalmente al presidente in carica. Fatti un po' di conti vorrebbe dire che Karzai incassava e incassa 12 milioni 240 mila dollari l'anno di tangenti. Pare che uno dei governatori cacciati via in malo modo, quello della provincia di Helmand, avesse lasciato ridurre la produzione di oppio nel suo territorio addirittura del 40%. E come paghi il boss se non vendi droga? Cosi' mi sono fermato a riflettere sul significato della presenza dei militari italiani in Afghanistan in questi anni. Eravamo la' per fare che cosa? Per rendere molto bene imbottito il conto americano di Karzai. Qui finisce un ragionamento e ne comincia un altro. Mi ricordo di Emma Bonino, che fu mandata dal Parlamento europeo a certificare la validita' delle elezioni afghane in un lontano momento tra il 2004 e il 2005 (non ricordo bene, ma non importa). Torno' tutta contenta e spiego' al colto e all'inclita che quelle elezioni erano un trionfo democratico. Tutto era andato benissimo, non c'erano stati brogli, le schede elettorali erano chiarissime e tutti erano andati disciplinatamente a votare pur essendo nella stragrande maggioranza analfabeti (ma questo la Emma nazionale non lo disse).

I parlamentari europei, per meta' distratti, per l'altra meta' del tutto incapaci di valutare e per l'altra meta' ancora assolutamente convinti della giustezza della linea americana che quelle elezioni aveva voluto, applaudirono.

Lo so che non ci possono essere tre meta' di una unita', ma in quel parlamento europeo dominato dalla destra e da un discreto livello di stupidita' maggioritaria vi garantisco che potevano esserci anche cinque meta' di una unita'.

Era l'epoca trionfale della guerra al terrore. Osama bin Laden era morto soltanto tre volte e, dunque, gliene restavano ancora sei, giusto fino al maggio del 2011, e dunque bisognava tenere duro sul tema dell'esportazione della democrazia. La signora Emma Bonino era stata mandata a celebrare l'esportazione democratica in Afghanistan e, dunque, la questione era chiusa prima ancora di venire aperta. E qui viene il terzo ragionamento. Ma che diavolo significa questa democrazia? Non ho ancora trovato nessuno che sia in grado di spiegarmi come si puo' considerare democrazia una situazione in cui la maggioranza della popolazione, che non ha mai messo una scheda in un'urna, viene spinta a fare gesti di cui non puo' nemmeno comprendere il significato. Per la semplice ragione che non sa leggere quella scheda.

KABUL, ITALIA

Poi mi sovviene che mi trovo in un paese molto civile e moderno, nel quale milioni di persone, che pure sanno leggere le schede, non vanno a votare dopo avere visto i nomi su quelle schede e averli sentiti parlare in televisione. E altri milioni vanno a votare senza conoscere i loro programmi, pur potendo leggerli, in quanto non e' in base a quei programmi che votano i candidati, ma per i favori che sperano di ottenere da quei candidati. E tutti quei pochi che vanno a votare non possono decidere niente comunque perche' quei nomi altri li hanno fatti stampare sulle schede senza nemmeno consultarli, e dunque debbono prendere per buono quello che passa il convento. Allora mi viene in mente quello che scriveva Michael Ledeen, uno dei neocon cruciali che organizzarono la guerra contro l'Afghanistan e contro l'Irak, in un suo libro intitolato "La guerra contro i mostri del terrore"

Scriveva che l'America ha come obiettivo quello di disfare (undo) le societa' tradizionali. E aggiungeva che loro hanno paura di noi perche' non vogliono essere cancellati. Per cui ci attaccano perche' vogliono sopravvivere, cosi' come noi dobbiamo distruggerli per andare avanti nella nostra missione storica.

Subito ho pensato che si riferisse agli afghani, o agli iracheni. Ma poi ho avuto un'illuminazione: si riferiva a noi. L'unica differenza sta nel fatto che loro reagiscono per non essere cancellati, mentre noi ci lasciamo docilmente cancellare.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

 

vendredi, 19 octobre 2012

Geheime Interessen: Die Wahrheit über den Stellvertreterkrieg in Syrien

Geheime Interessen: Die Wahrheit über den Stellvertreterkrieg in Syrien

Henning Lindhoff

Im Syrienkonflikt bahnt sich ein größerer Krieg an, in den auch das NATO-Mitglied Deutschland schnell hineingezogen werden könnte. Die großen Medien berichten viel über Syrien, enthalten uns allerdings systematisch einen Teil der Wahrheit vor.

Am Donnerstag, den 4. Oktober 2012 erreichte der Bürgerkrieg in Syrien eine neue Eskalationsstufe. Im türkischen Akçakale verloren eine Frau und vier Kinder ihr Leben durch Granatbeschuss aus dem nahen syrischen Aleppo. Wer die Granaten abgefeuert hatte, blieb bislang unbekannt. Es gibt allerdings Informationen von Insidern, nach denen die Granaten aus den Bestanden der NATO stammen sollen.

MEHR: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/deutschland/henning-lindhoff/geheime-interessen-die-wahrheit-ueber-den-stellvertreterkrieg-in-syrien.html

Semi proibiti: Bruxelles vieta la nostra sovranità alimentare

Semi proibiti: Bruxelles vieta la nostra sovranità alimentare

 
Matteo Marini
 
Ex: http://lospergiuro.blogspot.it/

Dall’assalto alla sovranità monetaria (basti guardare l’approvazione del Fiscal Compact e/o del Mes) all’attacco alla sovranità alimentare. L’Unione Europea sembra che voglia, di fatto, smantellare pian piano tutti gli assi che ogni Stato membro tenta di giocarsi per mantenere un minimo di autonomia. Tutto ruota attorno ad una direttiva comunitaria – in vigore dal 1998 – che stabilisce come la commercializzazione e lo scambio di sementi sia di solo appannaggio delle ditte sementiere (come la Monsanto). Agli agricoltori questo commercio è vietato.....
Molte le realtà associative di volontari che si sono costituite per opporsi a questa assurda regolamentazione, distribuendo sementi presenti fuori dal catalogo ufficiale delle multinazionali.
Come se non bastasse, la Corte di Giustizia europea, tarpando le ali anche a questi timidi tentativi di “ribellione”, ha ribadito – con una sentenza datata 12 luglio – l’assoluto divieto di commercializzare le sementi delle varietà tradizionali e diversificate che non sono iscritte nel catalogo ufficiale europeo. La sentenza, quindi, mette fuorilegge tutte le associazioni che si occupano di questo. Altro conflitto “istituzionale”, si sta verificando anche dentro i nostri confini. La Regione Calabria, dopo aver emanato una legge che favorisce la commercializzazione di prodotti regionali, si dovrà scontrare con il governo nazionale di Mario Monti. Il Consiglio dei Ministri ha per l’appunto fatto ricorso alla Corte Costituzionale contro questi provvedimenti di agricoltura a “chilometro zero”.
Secondo il governo dei tecnici, la normativa regionale in questione prevede delle disposizioni che – favorendo i prodotti calabresi – ostacolerebbero la circolazione di tutte le merci in contrasto con i principi comunitari. Il messaggio che si vorrebbe far passare, quindi, è che la circolazione di merci regionali sia quella avvantaggiata, rispetto a quella meno libera dei prodotti extraregionali. Controllando le sementi, le multinazionali avranno vita facile per introdurre le colture Ogm, nocive per gli esseri umani (come abbiamo già documentato dalle pagine del nostro giornale). Perché continuare a parlare di questo? Perché ribellarsi? Perché, come scriveva il drammaturgo Václav Havel, «Chi si adatta alle circostanze, le crea».
Libre

Les conséquences de la Loi Taubira...

Les conséquences de la Loi Taubira...

Bernard Lugan

ctaubira-2.jpgL’on croyait avoir tout vu à propos de la repentance ! Or, au moment où, à Gorée, François Hollande se couvrait la tête de cendres (voir mon communiqué du 12 octobre), le cabinet du Premier ministre français reconnaissait qu’il avait été demandé à un « collectif » d’associations de « faire des propositions sur ce qui peut être fait en termes de réparations ». Rien de moins ! Français, à vos portefeuilles…

Peut-être pourrait-on suggérer à Monsieur le Premier ministre de mettre particulièrement à contribution les habitants de sa bonne ville de Nantes, elle qui fut une capitale de la Traite et dont les électeurs apportent régulièrement leurs suffrages au parti socialiste…
 
La question des réparations est régulièrement posée depuis que, sous un Président de « droite » et un Premier ministre de gauche, les députés votèrent à l’unanimité et en première lecture, la loi dite « Taubira », loi qui fut définitivement adoptée le 10 mai 2001.

Jacques Chirac décida ensuite que ce même 10 mai, serait désormais célébrée la « Journée des mémoires de la traite négrière, de l’esclavage et de leurs abolitions ». Cette décision plus qu’insolite rompait avec une sage pratique voulant, sauf exception, que des dates du passé soient toujours choisies pour célébrer les évènements historiques. Or, avec le 10 mai, ce fut une date du présent qui allait permettre de commémorer des évènements du passé.

Pourquoi ne pas avoir choisi le 27 avril, date anniversaire de l’abolition de l’esclavage en France (27 avril 1848) pour célébrer cette « Journée des mémoires de la traite négrière, de l’esclavage et de leurs abolitions » ? L’air du temps y fut naturellement pour quelque chose…

Il est d’ailleurs proprement stupéfiant de devoir constater que, littéralement couchés devant le politiquement correct, tous les députés de « droite », je dis bien TOUS, votèrent cette loi qui ne dénonce pourtant qu’une seule Traite esclavagiste, celle qui fut pratiquée par les seuls Européens, loi qui passe sous silence le rôle des royaumes esclavagistes africains et la traite arabo-musulmane (1). L’ethno-masochisme de nos « élites » semble sans limites !

Quelques années plus tard, Christiane Taubira a osé déclarer qu’il ne fallait pas évoquer la traite négrière arabo-musulmane afin que les « jeunes Arabes (…) ne portent pas sur leur dos tout le poids de l’héritage des méfaits des Arabes » (L’Express du 4 mai 2006) !!!
 
L’énormité de la demande concernant les réparations est telle que le gouvernement va nécessairement devoir clarifier sa position. Il est même condamné à le faire devant l’impopularité et l’incongruité d’une telle démarche. Mais, harcelé par les groupes de pression qui constituent son noyau électoral, il va devoir donner des compensations « morales » aux « associations » concernées. Nous pouvons donc nous attendre à une nouvelle rafale de mesures de repentance.

Voilà comment l’histoire est violée et comment le totalitarisme liberticide se met en place. Lentement, insidieusement, mais sûrement.

Note
(1) L’Afrique Réelle du mois de novembre 2012 que les abonnés recevront au début du mois consacre un important dossier à ce que fut la réalité des traites esclavagistes.

jeudi, 18 octobre 2012

Les plans impérialistes de l’Occident, pour l’avenir de l’Afghanistan

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Les plans impérialistes de l’Occident, pour l’avenir de l’Afghanistan

«Ce n’est pas difficile de résoudre ce problème», c’est, du moins, l’avis le l’ambassadeur britannique, à Kaboul, Richard Stagg, en ce qui concerne les vieux problèmes frontaliers entre l’Afghanistan et le Pakistan.Stagg demande, d’ailleurs, aux deux parties d’engager, à ce sujet, des négociations sérieuses, qui aboutiraient, selon lui, à l’instauration et au renforcement de la paix et de la sécurité, dans la région. Selon ce diplomate britannique haut gradé, il est devenu, de nos jours, plus facile, par rapport à il y’a 10 ans, de trouver une solution au litige frontalier pakistano-afghan.

Dans le même temps, l’expert politique russe, Alexandre Kniazev,  de l’Institut de l’Orient de l’Académie des sciences de Russie, a laissé entendre que l’Afghanistan avait préparé des documents, en vue de reconnaître la ligne Durand, comme frontière internationale. «Cela fait un an qu’on a préparé, au sein du gouvernement afghan, des documents, en vue de la reconnaissance de cette ligne, comme la frontière définitive entre l’Afghanistan et le Pakistan ; quoi qu’un règlement définitif de cette question ne soit  pas l’œuvre de Karzaï, car cette question va, sans doute, provoquer la réaction négative de la majorité Pachtoune de l’Afghanistan qui souhaite, avec insistance, que les régions tribales pachtounes, maintenues, actuellement, sous la souveraineté pakistanaise, soient annexées au territoire afghan», estime l’expert russe.

Le débat autour des problèmes frontaliers des deux pays s’est déclenché, suite à une réunion tripartite de haut niveau, il y a 10 jours, à New York, entre l’Afghanistan, le Pakistan et la Grande Bretagne, avec, pour thème phare, la signature de l’accord stratégique entre Kaboul et Islamabad. Depuis, cette question a ravivé le débat politico-médiatique, dans les deux pays voisins. Dans l’un comme l’autre des deux pays, ces milieux accordent une importance particulière à la coopération bilatérale, surtout, en matière de sécurité, qui pourrait se faire, de la meilleure manière, par la signature d’un accord de sécurité ; mais une coopération sûre et durable ne pourrait s’obtenir, selon eux, qu’une fois résolu le litige frontalier, et cela, d’ailleurs, dans un climat de confiance mutuelle. L’expert afghan, Javid Kouhestani, partage, aussi, cette vision, et pense que pour résoudre ces problèmes, les deux pays vont devoir essayer de créer un climat de confiance. «Durand est considérée comme une ligne hypothétique, sur fond des interactions politiques, en Afghanistan ; dans la littérature politique, elle est pourtant qualifiée de  »ligne imposée »», estime le spécialiste afghan des questions politiques, pour lequel, tout pays qui souhaite voir l’Afghanistan et le Pakistan établir des relations stratégiques bilatérales, devrait œuvrer, dans un premier temps, à un règlement de leurs différends.

Rappelons, en passant, que la Ligne Durand a été définie, en 1893, dans le cadre d’un traité signé, sous la gouvernance d’Abdurrahman Khan, avec Henry Mortimer Durand, diplomate et administrateur colonial, en Inde britannique. Avec l’indépendance de l’Inde vis-à-vis de son colonisateur britannique, et la création du Pakistan, le gouvernement afghan de l’époque ne reconnaît plus la ligne Durand et depuis, existe, toujours, entre l’Afghanistan et le Pakistan, un litige frontalier, qui devient parfois très sérieux. Disposant des antécédents coloniaux, dans le sous-continent indien, marqués par une ligne Durand toujours vivante, comme une source de tension, dans les relations Kaboul/Islamabad, les responsables londoniens font, de nouveau, leur entrée, sur la scène, pour imposer leur génie de structuration géopolitique, véhiculer leur influence et réaliser leurs plans susceptibles d’assurer les intérêts de l’Occident.

Pour ce faire, les Britanniques, mais aussi, et surtout, les Américains, ont leurs deux méthodes, qui consistent à nourrir l’insécurité et à diviser l’Afghanistan, en plusieurs secteurs. A ces méthodes, s’ajoutent, également, des analyses irréalistes des médias occidentaux, disant, à titre d’exemple, qu’une fois que les forces étrangères auront quitté l’Afghanistan, une guerre civile, en bonne et due forme, se déclenchera, dans ce pays. Et-il donc nécessaire de rappeler que tout cela vise à y justifier leur présence éternelle ? Les rapports publiés par les appareils de renseignement des pays occidentaux, dont l’Allemagne, ainsi que, par les sources otaniennes et les milieux sécuritaires et militaires états-uniens, donnent matière à réflexion, là où ils disent qu’un Afghanistan évacué des troupes étrangères sera, sans nul doute, gouverné par les Taliban. Dans le même cadre, le commandant adjoint des forces de l’OTAN, en Afghanistan, le Général britannique Adrian Bradshaw a lancé une mise en garde, quant à un retrait précipité des troupes étrangères du sol afghan. Parallèlement, le Département d’Etat américain a fait part de l’envoi, en deux groupes, de quelque 3.000 effectifs militaires, pour aider les forces de sécurité afghanes à assurer la transition, prévue vers la fin de l’année encours ou en début de l’année 2013.

Sur ce fond, le Président afghan, Hamid Karzaï, a demandé à son peuple de ne pas se laisser pas influencer par les médias étrangers. Il a qualifié d’inexactes, les analyses et les campagnes négatives élaborées par certains titres de la presse étrangère, au sujet de l’avenir de l’Afghanistan, et dire qu’à travers ces reportages à caractère, plutôt, sécuritaire, les médias occidentaux cherchent à réaliser leurs objectifs. Ces campagnes, Hamid Karzaï les considèrent comme faisant partie d’une guerre des nerfs et, en plus, pas très sérieuses. «On voit les médias occidentaux publier, chaque jour, des articles et analyses irréalistes, sur l’avenir de l’Afghanistan, une fois que les forces étrangères en seront sorties», dit également Hamid Karzaï, pour lequel la situation sécuritaire s’est, relativement, améliorée, et les événements fâcheux se sont réduits, dans le pays, depuis que les forces internationales ont commencé à confier les responsabilités sécuritaires aux forces afghanes.

La deuxième méthode prévue par le génie de géopolitique britannique destiné à l’Afghanistan consiste en la division de ce pays. Selon les médias, le ministère britannique des Affaires étrangères a rédigé un plan prévoyant la division de l’Afghanistan en 8 secteurs. Les Britanniques ont, également, élaboré, à l’intention des responsables américains et pakistanais, ce plan C, qui confie aux Taliban la gestion de certains de ces 8 futurs secteurs ou  »Velayats » du pays.

«La création d’une autorité locale placée sous gouvernance d’un Premier ministre puissant pourrait en finir avec la corruption d’Etat et les différends tribaux, en Afghanistan», selon ledit plan, qui confie la gestion de certains secteurs aux Taliban», précise Tobias Ellowd, député conservateur britannique, et de préciser ces 8 secteurs, à savoir : Kaboul, Kandahar, Herat, Balkh, Kunduz, Jalalabad, Khost et Bamian. Ce plan colonialiste, à cause de ses retombées imprévisibles, dont une division du pays, s’est heurté à de vives critiques, à l’intérieur de l’Afghanistan, du fait qu’il risque d’aggraver la crise interne. En fait, le plan de remplacement du régime souverainiste, en Afghanistan, par un Ordre fédéraliste, avait été élaboré, auparavant, par certains responsables américains, qui, en plus, ont organisé des réunions avec les groupes politiques opposés au gouvernement afghan. A son tour, le Président afghan, Hamid Karzaï, a, vivement, rejeté les plans et réunions de ce genre, qui constituent, selon lui, un cas flagrant d’ingérence, dans les affaires intérieures de son pays.

Pour leur part, les experts russes estiment que la stratégie américaine, en Afghanistan et en Asie centrale, s’inscrit dans le cadre du plan du Grand Moyen-Orient. Pour preuve : ils se réfèrent à certaines mesures américaines, en Afghanistan, et dans des pays centre-asiatiques, dont la construction d’une base, à Mazar-e -Sharif. Entre autres, Alexandre Kniazev estime que le premier objectif de la guerre américano-otanienne, en Afghanistan, consiste à insécuriser la région. «Nourrir l’insécurité, en Asie centrale et au Kazakhstan, est vital pour l’OTAN et les Etats-Unis. Les questions, dont on entend parler, depuis presque un an et demi, au sujet des changements géopolitiques à apporter, en Afghanistan, deviennent, donc, hyper-importantes, dans cette perspective», estime l’expert russe.

A en croire le Dr. Najibullah Lafraie, l’ancien ministre afghan des Affaires étrangères du gouvernement  Burhaneddin  Rabbani, et professeur à l’Université d’Otago, en Nouvelle Zélande, le plan C du ministère britannique des Affaires étrangères est conçu, en principe, pour assurer la bonne application des plans occidentaux, en Afghanistan. Pour rappel, une fois que le plan A stipulant un Afghanistan occupé ou influencé par les Etats-Unis aura commencé à montrer sa faiblesse, pour répondre aux attentes des Occidentaux, les consultations  commenceront, en vue d’élaborer un nouveau plan. Ainsi, un plan B a-t-il été élaboré, en 2010, par l’ancien ambassadeur américain, en Inde, Robert Blackwill, un plan qui prévoit le démembrement de l’Afghanistan, en deux secteurs : un secteur Nord, contrôlé par un gouvernement central stipendié, et un secteur Sud, confié aux Taliban. Ce plan reste, d’ailleurs, toujours, sur la table, pour la politique étrangère américaine. Sur ce fond, la vieille puissance colonialiste britannique continue de croire que pour assurer la réussite des plans de balkanisation de l’Afghanistan, il serait sage de réserver une bonne partie du gâteau à chacune des ethnies afghanes ; cette thèse reste, ainsi, à l’origine du plan C britannique, pour l’avenir de ce pays.

Les nouvelles, sur l’élaboration de ce plan, ont fait réagir le Porte-parole du ministère afghan des Affaires étrangères, Janan Mosazai, qui regrette de l’avoir entendu. «Le monde ne manque pas, dirait-on, de gens absurdes, et ceux qui avancent ces plans semblent dépourvus d’une bonne santé mentale», affirme le porte-parole du ministère afghan des Affaires étrangères, et d’ajouter que les Afghans ont défendu, durant des décennies, en sacrifiant leur vie et en versant leur sang, la souveraineté nationale de leur pays ; la solidarité nationale des Afghans est, ainsi, restée intacte, selon ses dires, même, aux moments les plus obscurs et les plus tristes de l’histoire de l’Afghanistan.

Die weiteren Auswirkungen des syrischen Krieges bedrohen einen fragilen Irak

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Die weiteren Auswirkungen des syrischen Krieges bedrohen einen fragilen Irak

von Tim Arango, Bagdad

Ex: http://www.zeit-fragen.ch/

Nur neun Monate, nachdem die amerikanischen Streitkräfte ihre lange und kostspielige Besetzung hier [im Irak] beendeten, stellt der Bürgerkrieg in Syrien Iraks fragile Gesellschaft und seine noch junge Demokratie auf die Probe, verschlimmert die konfessionellen Spannungen, treibt den Irak näher an Iran und wirft ein Schlaglicht auf die Sicherheitsdefizite.
Aus Furcht, dass sich irakische Aufständische mit Extremisten in Syrien zusammenschliessen, um einen Zweifrontenkrieg für eine sunnitische Vorherrschaft zu führen, befahl Premierminister Nuri Kamal al-Maliki vor kurzem Wachen an die westliche Grenze, um erwachsene Männer, selbst Ehemänner und Väter mit Familien im Schlepptau, daran zu hindern, zusammen mit Tausenden von Flüchtlingen, die dem aufreibenden Krieg nebenan zu entkommen suchen, in den Irak zu kommen.
Weiter nördlich haben irakische Behördenvertreter eine andere Sorge, die auch mit den Kämpfen jenseits der Grenze in Zusammenhang steht. Türkische Kriegsflugzeuge haben ihre Angriffe auf die Verstecke kurdischer, durch den Krieg in Syrien aufgerüttelter Aufständischer in den Bergen, intensiviert, was die Unfähigkeit des Irak zur Kontrolle seines eigenen Luftraums unterstreicht.
Die Verhärtung der Positionen der Widersacher in Syrien – die im ganzen Irak widerhallen – wurde bei den Vereinten Nationen deutlich, als der neue Sondergesandte für Syrien, Lakhdar Brahimi, dem Sicherheitsrat eine trostlose Beurteilung des Konflikts abgab und sagte, er sehe keine Aussicht auf einen Durchbruch in absehbarer Zukunft.
Die übergreifenden Auswirkungen des syrischen Krieges haben die Aufmerksamkeit auf für amerikanische Beamte unangenehme Realitäten gelenkt: Trotz nahezu neun Jahren militärischen Engagements – ein Einsatz, der heute mit einem Waffenverkaufsprogramm von 19 Milliarden Dollar weitergeführt wird – ist die Sicherheitslage im Irak zweifelhaft und sein Bündnis mit der theokratischen Regierung in Teheran wird stärker. Die schiitisch dominierte Führung des Irak ist derart beunruhigt über einen Sieg der sunnitischen Radikalen in Syrien, dass sie sich Iran angenähert hat, der ein gleichartiges Interesse mit der Unterstützung des syrischen Präsidenten Bashar al-Assad verfolgt.
Es gibt bereits Anzeichen dafür, dass sunnitische Aufständische im Irak versucht haben, sich mit syrischen Kämpfern zu koordinieren, um einen regionalen konfessionellen Krieg in Gang zu setzen, wie irakische Stammesführer berichteten.
«Kämpfer von Anbar gingen dorthin, um ihre Konfession, die Sunniten, zu unterstützen», sagte Scheich Hamid al-Hayes, ein Stammesführer in der Provinz Anbar im westlichen Irak, der einst eine Gruppe ehemaliger Aufständischer führte, welche die Seiten wechselten und sich den Amerikanern bei der Bekämpfung von al-Kaida im Irak anschlossen.
In Reaktion darauf haben die Vereinigten Staaten versucht, ihre Interessen im Irak abzusichern. Sie haben auf den Irak erfolglos Druck ausgeübt, dass er Flüge aus Iran aufhält, die irakischen Luftraum durchqueren und mit denen Waffen und Kämpfer zum Assad-Regime befördert werden, obwohl laut einem Bericht von The Associated Press ein Regierungssprecher am Wochenende sagte, der Irak würde mit stichprobenartigen Durchsuchungen iranischer Flugzeuge beginnen.
Während einige Führer des Kongresses gedroht haben, die Hilfe an den Irak einzustellen, wenn die Flüge nicht aufhörten, versuchen die Vereinigten Staaten ihre Waffenverkäufe an den Irak zu beschleunigen, um ihn als Verbündeten zu halten, wie Generalleutnant Robert L. Caslen Jr., der für diesen Einsatz zuständige Kommandant, sagte. Im Zuge der Verschlechterung der Sicherheitslage fällt es den Vereinigten Staaten schwer, Waffen – vor allem Luftabwehrsysteme – schnell genug zu liefern, um die Iraker zufriedenzustellen, die sich in einigen Fällen anderswo umsehen, vor allem in Russland.
«Obwohl sie eine strategische Partnerschaft mit den Vereinigten Staaten wollen, erkennen sie die Schwachstelle und haben ein Interesse daran, mit dem Staat mitzugehen, der in der Lage ist zu liefern und ihren Bedarf, die Lücke in ihren Fähigkeiten, so schnell wie möglich zu schliessen», sagte General Caslen, der hier ein der amerikanischen Botschaft unterstelltes Büro des Pentagon leitet, das Waffenverkäufe an den Irak vermittelt.
Die Vereinigten Staaten versorgen den Irak mit überholten Flakgeschützen, gratis, aber sie werden nicht vor Juni [2013] eintreffen. In der Zwischenzeit haben die Iraker Raketen aus der Zeit des Kalten Krieges gesammelt, die auf einem Schrottplatz einer Luftwaffenbasis nördlich von Bagdad gefunden wurden, und versuchen nun, sie funktionsfähig zu machen. Irak verhandelt mit Russland über den Kauf von Luftabwehrsystemen, die viel schneller geliefert werden könnten als die von den Vereinigten Staaten abgekauften.
«Der Irak erkennt, dass er seinen Luftraum nicht kontrolliert, und sie sind sehr empfindlich darauf», so General Caslen. Jedes Mal, wenn ein türkischer Kampfflieger in den Luftraum des Irak eindringt, um kurdische Ziele zu bombardieren, sagte er, würden irakische Beamte «das sehen, sie wissen es, und sie nehmen das übel».
Iskander Witwit, ein ehemaliger Offizier der irakischen Luftwaffe und Mitglied des Sicherheitsausschusses des Parlamentes, sagte: «So Gott will, werden wir den Irak mit Waffen rüsten, die in der Lage sind, diese Flugzeuge abzuschiessen.»
Das amerikanische Militär zog Ende letzten Jahres ab, nachdem Verhandlungen über eine verlängerte Truppenpräsenz scheiterten, weil die Iraker einer Verlängerung der rechtlichen Immunität für irgendeine verbleibende Macht nicht zugestimmt hätten. Als die Amerikaner gegangen waren, feierte der Irak seine Souveränität, während sich Militärvertreter in beiden Ländern über die Mängel des irakischen Militärs ärgerten und nach Wegen der Zusammenarbeit suchten, die keine öffentliche Debatte über Immunitäten erforderten.
Der Irak und die Vereinigten Staaten sind dabei, ein Abkommen auszuhandeln, das zur Rückkehr von kleinen Einheiten amerikanischer Soldaten in den Irak für Ausbildungseinsätze führen könnte. Auf Ersuchen der irakischen Regierung, so General Caslen, wurde kürzlich eine Einheit von Soldaten für «Special Operations» der Armee in den Irak verlegt, um in Terrorbekämpfung zu beraten und mit Geheimdienstinformationen zu helfen.
Demnach sucht das Land – auch wenn es sich enger an Iran anlehnt und beabsichtigt, Waffen von Russland zu kaufen – immer noch die militärische Unterstützung der Vereinigten Staaten. Dies, weil der Irak noch immer mit einer starken Aufstandsbewegung konfrontiert ist, deren häufige Angriffe Fragen darüber aufgeworfen haben, ob die Terrorbekämpfungstruppen des Irak fähig sind, sich einer solchen Bedrohung zu stellen.
In Anbar, so der Stammesführer Hayes, haben Aufständische unter dem Namen Freie Irakische Armee Einheiten gebildet, die mit al-Kaida verbunden sind, womit sie das Banner nachahmen, unter dem die syrischen Sunniten kämpfen. «Sie treffen sich und betreiben Rekrutierung», sagte er. Die Gruppe hat auch einen Account bei Twitter und eine Facebook-Seite.
Ähnliche Einheiten sind in der Provinz Diyala entstanden, und sie haben laut lokalen Beamten einen Ruf zu den Waffen in Syrien als Rekrutierungsinstrument genutzt. Wenn Kämpfer in Syrien sterben, werden Beerdigungen von den örtlichen Familien im geheimen abgehalten, um die schiitisch dominierten Sicherheitskräfte nicht darauf aufmerksam zu machen, dass sie ihre Söhne nach Syrien geschickt haben. Laut einem lokalen Geheimdienstmitarbeiter wurde ein solches Begräbnis vor kurzem unter dem Vorwand durchgeführt, dass der gefallene Kämpfer bei einem Autounfall ums Leben gekommen sei und nicht, wie es tatsächlich war, in Kämpfen in Aleppo.
Während westliche Politiker eine Intervention in Syrien erwägen, beunruhigt sie auch, dass der Krieg des Landes zu einem ausgewachsenen konfessionellen Konflikt werden könnte wie derjenige, der den Irak von 2005 bis 2007 verschlang. Für die Iraker, die damals nach Syrien flohen und die nun zurückkehren – nicht freiwillig, sondern um ihr Leben zu retten – ist Syrien bereits der Irak.
«Es ist genauso, wie es im Irak war», schilderte Zina Ritha, 29, die nach mehreren Jahren in Damaskus nach Bagdad zurückkehrte. Zur Freien Syrischen Armee (F.S.A.) meinte Zina Ritha: «Die F.S.A. zerstört Häuser der Schiiten. Sie entführen Menschen, vor allem Iraker und Schiiten.»
Unlängst an einem Morgen besuchten Zina Ritha und ihre Schwiegermutter ein hiesiges Zentrum für Rückkehrer, wo Familien eine Zahlung von vier Millionen irakischen Dinars oder rund 3400 Dollar von der Regierung erhalten. Die Leute im Zentrum sagen, dass es für Iraker in Syrien keine Sicherheit gebe: Schiiten werden von Rebellen angegriffen, Sunniten von den Regierungskräften. Und jederzeit können sie ins Visier genommen werden, einfach weil sie Ausländer sind.
Abdul Jabbar Sattar, ein alleinstehender Mann in den 40ern, ist Sunnit. Nach einem Bombenanschlag im Juli in Damaskus, bei dem mehrere hochrangige Sicherheitsbeamte ums Leben kamen, litt sein Wohnviertel unter Beschuss rund um die Uhr. Er kehrte mit einem Satz Kleider und wenig Geld in den Irak zurück, da er auf der Flucht ausgeraubt wurde.
«Es ist die gleiche Lage, wie sie früher im Irak war», sagte er. «Jeder hat Angst vor dem anderen.»    •

Zum Bericht beigetragen haben Duraid Adnan, Yasir Ghazi und Omar al-Jawoshy von Bagdad, und ein Angestellter der The New York Times aus der Provinz Diyala.

Quelle: The New York Times vom 24.9.2012
(Übersetzung Zeit-Fragen)

Tom Sunic Interviewed by Richard Edmonds

Tom Sunic Interviewed by Richard Edmonds

 

mercredi, 17 octobre 2012

Sunnites, alaouites, Kurdes, chrétiens, druzes…

Sunnites, alaouites, Kurdes, chrétiens, druzes…

Analyse du rapport entre le conflit syrien et la démographie

par Youssef Courbage

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

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La guerre en cours depuis dix-huit mois se joue aussi dans le poids et la vitesse de croissance des différents groupes qui se partagent le territoire ou s’entredéchirent.

Des enfants jouent dans des ruines, au nord de la Syrie, le 8 octobre 2012. REUTERS/Stringer.- Des enfants jouent dans des ruines, au nord de la Syrie, le 8 octobre 2012. REUTERS/Stringer. -

Avec 33.000 morts et 340.000 réfugiés hors des frontières, la démographie est évidemment présente dans le conflit qui ravage la Syrie depuis mars 2011, ce délicat bras de fer où l’on se contente souvent d’une vérité qui, pour n’être pas reconnue, est pourtant connue de tous: un groupe confessionnel minoritaire démographiquement, les alaouites (originaire du chiisme musulman), monopoliserait le pouvoir et ses multiples instruments. Ou, de manière plus nuancée: l’ensemble des minoritaires, peu ou prou unifiés, se seraient ralliés à ce pouvoir, s’opposant par là même à la majorité de la population.

 

La dimension démographique du conflit se joue aussi dans le poids et la vitesse de croissance des différents groupes qui se partagent le territoire ou s’entredéchirent, facteur décisif vis-à-vis du pouvoir central. En effet, la transition démographique —vecteur essentiel de la modernisation des sociétés— n’y avance pas au même rythme: si le conflit est inscrit dans l’état démographique des forces en présence, il se joue donc aussi dans le mouvement (natalité, mortalité, migrations…) qui différencie ou oppose ces populations, par leur natalité surtout [1].

D’abord, la question la plus simple: que pèsent démographiquement les différents groupes aujourd’hui? Malgré le mutisme officiel (recensement, état-civil, enquêtes…), les estimations abondent: plus de 40% de minoritaires selon certaines estimations très généreuses; beaucoup moins selon la nôtre, qui les amène à 27%.

Cette «bataille de chiffres» en serait restée à ce stade si elle n’avait dégénéré en conflit ouvert entre diverses factions de la population. Occultée par l’idéologie dominante de l’Etat-Nation syrien, la démographie communautaire [2] a repris des couleurs, comme sous le mandat français (1920-1944), qui avait divisé un temps la Syrie en Etats confessionnels, communautaires ou régionaux: alaouite, druze, sandjak d’Alexandrette, et même un Etat de Damas et un Etat d’Alep.

Les sunnites, dominants démographiquement, dominés politiquement

Démographie et pouvoir sont en porte-à-faux, les sunnites arabes (73% de la population) vivant depuis 1963 une situation d’éclipse politique. Mais s’agit-il vraiment d’un groupe? Plutôt d’un agrégat composite, urbain, rural, bédouin, très hétérogène, régionaliste, sans ossature réelle après la destruction du parti des Frères Musulmans en 1982, qui s’était fait fort —sans réussir— de rallier les sunnites de Syrie.

Les années 2011-2012 amorcent peut-être un semblant de regroupement, dans la mouvance d’une guerre qui pour la première fois n’épargne aucune des villes moyennes à dominante sunnite et rapproche symboliquement les deux capitales, Damas et Alep, longtemps rivales.

Pour autant, le pouvoir syrien ne manque pas d’y entretenir des groupes d’intérêt, des milieux d’affaires à la pègre, en passant par le souk de Damas, plus récemment celui d’Alep, qui lui sont obligés. Les allégeances ne sont jamais évidentes, il n’y a pas congruence parfaite entre le sunnisme syrien et l’opposition au régime.

Les Kurdes, minorité démographique politiquement dominée

Qu’en est-il des minorités? A défaut d’une unité nationale réelle, le pouvoir tente de les agréger au noyau dur alaouite. Il s’agit là d’un impératif démographique aux fortes connotations politiques et militaires.

Les Kurdes, qui représentent 8% de la population (certaines estimations vont jusqu’à 10%, ce qui en ferait la première minorité du pays devant les alaouites), principalement sunnites (95%), ne jouent pas la carte sunnite, mais ne penchent pas pour autant du côté d’un pouvoir qui les a privés de la majeure partie de ce qu’ils jugent être leurs droits nationaux, de la reconnaissance de leur langue, voire, pour de larges pans de la population, de la nationalité syrienne.

En 1962, un «recensement» de la région principalement kurdophone de la Jézira, a abouti à priver de la nationalité syrienne 120.000 Kurdes désormais considérés comme étrangers. Plus de 300.000 Kurdes apatrides vivaient en Syrie à la promulgation du décret d’avril 2011 de restitution de la nationalité syrienne aux Kurdes. Un geste destiné à les rallier à la cause du pouvoir après plusieurs décennies d’ostracisme, mais dont seulement 6.000 personnes auraient bénéficié.

Leur forte concentration géographique aux frontières de la Turquie et de l’Irak, jointe à leur croissance démographique —la plus élevée du pays—, favorise les penchants sécessionnistes, à l’écoute des Kurdes de Turquie ou d’Irak, un peu moins d’Iran. C’est pourquoi l’opposition syrienne, qui se méfiait des pulsions sécessionnistes kurdes, a tardé à enrôler des opposants de ce côté. Mais récemment, le Conseil national syrien a élu un Kurde, Abdelbasset Sida, à sa tête.

Pour ajouter à l’ambivalence de la situation de cette minorité à l’égard du pouvoir central, il faut souligner les liens entre une partie des Kurdes de Syrie et le Parti des travailleurs du Kurdistan (PKK), anti-turc, occasionnellement pro-syrien et se retrouvant donc loyaliste par la force des choses.

Les yazidis, cette archi-minorité kurdophone non-musulmane, se distinguent eux par leur religion des Kurdes musulmans. Démographiquement et politiquement, ils pèsent d’un poids négligeable.

Les chrétiens, minoritaires proches du pouvoir?

Les chrétiens sont très largement surestimés dans les estimations, jusqu’à 12% —la CIA leur accorde 10%, plus de deux fois plus que notre estimation (4,6%). Il y a là comme une extrapolation à la démographie de la surreprésentation des chrétiens syriens dans le monde prestigieux des affaires et de la culture. Pourtant, ils sont parmi les premières victimes de leur succès en termes de transition démographique avancée, le payant par un recul de leur nombre en valeur relative, sinon absolue.

Pour ces raisons démographiques, ils ne constituent qu’une force d’appoint qui pèse peu dans la balance: faible fécondité, tombée à quelque 1,8 enfant par femme, et forte émigration hors du pays. La ville d’Alep, la plus «chrétienne» de Syrie, illustre remarquablement ce déclin, des 30% (sans doute exagérés) de chrétiens dans les années 40 à 3,5% aujourd’hui.

Les chrétiens se sont souvent retrouvés comme minoritaires mais proches du pouvoir —parfois à leur corps défendant—, un pouvoir qui tente, surtout depuis le conflit en cours, de les agréger encore plus au noyau dur. Mais ils ne sont unis ni sur le plan confessionnel ni sur le plan politique.

Leur présence au sein du parti au pouvoir, le Baath, ne date pas d’aujourd’hui et, faut-il le rappeler, l’un de ses fondateurs, Michel Aflak, était un Syrien chrétien. Une certaine continuité puisque le ministre de la Défense Daoud Rajha, tué dans l’attentat de Damas en juillet dernier, était chrétien. Et l’armement de miliciens chrétiens en soutien du régime a été tenté, mais certains groupes chrétiens —des Assyriens— ont pris les armes contre le pouvoir, tout en restant en marge de l’opposition.

Les dignitaires ecclésiastiques chrétiens ont, pour la plupart, mais avec des exceptions notables, prêté allégeance au pouvoir. Mais leurs voix sont largement compensées par celles des opposants chrétiens, qui siègent aux plus hautes instances du Conseil national syrien ou des autres groupes de l’opposition.

Les moins politisés des chrétiens vivent eux mal les visées du pouvoir sur le Liban, qui remontent surtout à 1975, alors qu’ils ont tissé depuis des temps immémoriaux des relations poussées, familiales notamment, avec le pays —ce qui n’est d’ailleurs pas un phénomène chrétien seulement, mais celui de Syriens de toutes confessions, pour qui le Liban reste une option comme pays-refuge.

Parmi les chrétiens, les Arméniens, pour la plupart originaires de Cilicie, se découvrent eux des affinités avec la république d’Arménie, qui pourrait bien devenir une autre patrie-refuge.

Attitude contrastée des autres minorités

Comme ceux des chrétiens, les effectifs des druzes, concentrés dans le Djébel Druze (gouvernorat de Soueida), sont largement surévalués: 500.000, voire 700.000, contre moins de 400.000 effectivement. Cela tient en partie à l’imprécision du décompte des Druzes expulsés du Golan à la suite de la guerre israélo-arabe de 1967.

L’ambivalence rencontrée chez les Kurdes ou les chrétiens se retrouve chez eux. Le réflexe minoritaire les pousserait à faire front avec les autres minorités, mais un long contentieux avec les pouvoirs successifs qui se sont succédés depuis l’Indépendance jusqu’au coup d’état de 1963 et l’éviction des officiers druzes de l’armée les inciterait à la méfiance vis-à-vis des autorités.

Ces druzes de Syrie —originaires pour la plupart du Mont-Liban après leur migration forcée au XVIIIe siècle— manquent d’un leadership national, qu’ils trouvent en partie au Liban en la personne de Walid Joumblatt, le leader du PSP libanais, un druze qui se fait fort d’encourager ses coreligionnaires de l’autre côté de la frontière à refuser de servir dans l’armée et dans les services de sécurité.

Pour les archi-minorités, qui comptent peu du point de vue démographique, les préférences politiques sont également contrastées. Cela va des Turkmènes, les plus opposants, car sunnites, turcophones et en symbiose avec la Turquie, aux chiites duodécimains, plus en phase avec l’Iran et son allié syrien.

Les Ismaéliens, des chiites non-duodécimains, seraient –modérément— proches du pouvoir. Les Tcherkesses, des sunnites non-arabes originaires du Caucase, semblent plutôt neutres dans le conflit en cours. Mais leur malaise se traduit par le fait que certains envisageraient le «retour» en «Russie».

En définitive, ces minoritaires dominés, si on agrégeait leurs effectifs, se retrouveraient à mi-chemin du pouvoir et de l’opposition, mais en aucun cas une force décisive ni pour les uns ni pour les autres.

Les alaouites: une minorité démographique politiquement dominante

Que les alaouites, de leur côté, soient la minorité au pouvoir ou celle du pouvoir importe peu. Comme mentionné plus haut, les cercles confessionnels et politiques ne se recoupent jamais intégralement. Et de la même façon que le pouvoir a réussi à fidéliser nombre de sunnites, l’opposition compte également de prestigieuses personnalités alaouites.

Les alaouites font corps avec la Syrie, mais leur présence déborde le cadre syrien: plus de 400.000 alaouites arabes (à ne pas confondre avec les 15 millions d’Alévis des turcophones chiites) vivent en Turquie. Près de 100.000 au Liban, paradoxalement le seul pays qui leur accorde une reconnaissance officielle, un état-civil et une représentation parlementaire comme alaouites. En revanche, en Turquie et en Syrie, ils sont officiellement musulmans, mais ne peuvent se réclamer de leur confession précise.

L’actualité brûlante a ravivé l’intérêt accordé à leur religion. Issue de l’islam chiite duodécimain, elle s’en est éloignée par son caractère trinitaire, initiatique, syncrétique. Que les alaouites croient à la transmigration des âmes (métempsycose) —ce qui n’est pas sans effet sur leur faible fécondité comme chez les druzes—, se passent de mosquées, tolèrent l’alcool, ne voilent pas leurs femmes, etc., les a mis au ban de l’islam officiel.

Toutefois, depuis 1936 et surtout depuis 1973, les alaouites tentent de s’insérer dans le giron de l’islam officiel chiite, voire sunnite. Mais plus que par leur religion, c’est par leur asabiyya, ce concept forgé au XIVème siècle par Ibn Khaldoun, une valorisation du réseau social où les liens sont surdéterminés par l’appartenance familiale, clanique ou communautaire, qu’ils se distinguent des autres Syriens. Cette asabiyya a été aiguisée par leur histoire conflictuelle avec le pouvoir central, de Saladin jusqu’aux Ottomans en passant par les Mamelouks, les plus féroces de leurs adversaires.

Une histoire faite aussi d’oppression socioéconomique, qui allait vivifier leur solidarité. Seul le mandat français, et pour une brève période (1922-1936), a tenté de les rallier au pouvoir central —avec des succès très mitigés— en leur concédant l’«Etat des Alaouites». Piètre consolation, puisque cette entité, selon le géographe Etienne de Vaumas, était «coupée du reste du monde… conservatoire d’une société condamnée à un dépérissement qui pour être lent n’en était pas moins certain».

De cette préhistoire antérieure au coup d’Etat de 1963, il est resté beaucoup de rancœurs. Les alaouites ont conservé la mémoire de leurs pères, métayers chez les seigneurs féodaux de la plaine et surtout de la ville-symbole sunnite de Hama. Celle aussi des petites filles que l’on «vendait» comme bonnes à tout faire, aux bourgeois et petits-bourgeois des villes de Lattaquié, Damas, Alep et jusqu’à Beyrouth.

Seul vecteur de l’ascenseur social, le parti Baath et la profession militaire. Ce fut d’abord le fait du mandat français, qui recruta, hors de toute relation de proportionnalité avec leur population, des alaouites dans ses bataillons du Levant, présence qui se perpétua après l’indépendance. La démographie militaire montre qu’en 1955, 65% des sous-officiers étaient alaouites et le Comité militaire, chargé du recrutement dans les académies militaires, entre leurs mains. Mais la majorité des officiers restaient sunnites.

De 1963 à 1970, le pouvoir confortera leurs positions au sein de l’appareil et de l’armée, allant crescendo jusqu’au coup d’état de 1970, avant la vigoureuse correction survenue entre 1970 et 1997, année où 61% des principales personnalités militaires et des forces de sécurité étaient alaouites et 35% sunnites.

Un mouvement correctif socioéconomique

Du «mouvement correctif» engagé en 1970, idéologique (abandon de la référence au socialisme), politique et militaire, naîtra un autre mouvement correctif socioéconomique de longue haleine, dont les effets laissent une empreinte forte sur les statistiques, celles du recensement de 2004 notamment.

Rurales avant l’indépendance à plus de 97%, les populations alaouites dominaient, dès 1990, les villes du littoral: 55% à Lattaquié, 70% à Tartous, 65% à Banias, villes, qui sous le mandat français, étaient encore des bastions sunnites (78% environ). L’ascension des alaouites dans l’armée, les services de sécurité, la fonction publique, les entreprises d’Etat et, plus récemment, dans le secteur privé, leur a également assuré une présence marquée à Damas, à Homs, à Hama, mais non à Alep. L’accès à la ville, à l’administration, à l’enseignement, notamment universitaire (avec un système de discrimination positive pour les bourses à l’étranger), a donné un coup de fouet à leur mobilité dans l’échelle sociale.

La rente de situation ainsi générée au profit des alaouites ressort parfaitement des données de 2003-2004. Leur niveau de vie est franchement plus élevé qu’ailleurs (sauf dans la capitale): la dépense mensuelle par personne atteignait 3.310 livres syriennes (un peu moins de 40 euros d’aujourd’hui) dans la région côtière, pour 2.170 seulement dans le gouvernorat d’Alep.

Tous les indicateurs vont d’ailleurs dans le même sens: faible proportion d’actifs dans l’agriculture, un secteur à basse productivité; faible taux d’analphabétisme des adultes, notamment féminin; faible proportion de filles de 5-24 ans non-scolarisées; enfin, une plus forte féminisation de la main-d’œuvre non-agricole, un autre et important critère de la modernité.

L’Etat a également fourni avec plus de générosité aux gouvernorats côtiers l’électricité, l’eau potable, les réseaux d’égouts. Ces statistiques ne signifient pas que les alaouites sont tous devenus aisés ou se sont tous métamorphosés de paysans sans terre en petits ou grands bourgeois: il existe naturellement plus d’un village ou un quartier de ville alaouites pauvres. Mais en moyenne, leur région a connu une progression sans pareil.

Les risques des transitions à deux vitesses

Les alaouites ne sont pas les seuls à connaître au fil des années cette érosion de leurs taux de natalité, solidaires par cette transition démographique des druzes (bien représentés par les gouvernorats de Soueida et de Quneitra) et des chrétiens (disséminés dans tout le pays). En 2004, le nombre moyen d’enfants par femme de la région côtière était tombé à 2,1, soit le seuil de renouvellement des générations (1,8 chez les druzes et autant chez les chrétiens).

La même année, et pour ne retenir que les lieux qui ont fait la une des journaux par l’intensité des combats, la fécondité était de 3,8 enfants par femme à Alep (presque deux fois plus), 3,1 dans le pourtour rural de Damas, 3,5 à Hama, 3,1 à Homs, 5,1 à Idleb, 6,2 à Deir el Zor. A Dera’a, qui a inauguré la série sanglante, elle était de 4,6.

Cette transition à deux vitesses signifie que la population majoritaire, déjà très nombreuse, est alimentée en sus par un flux de naissances très abondantes et en augmentation, là où la minorité ou les minorités (à l’exception notoire des Kurdes) voient leurs naissances s’atrophier et diminuer.

Dans un contexte de conflit, la transposition des chiffres démographiques en chiffres militaires est automatique: tous les ans, à 18 ans ou un peu plus, des jeunes issus de la majorité vont se présenter de plus en plus nombreux sous les drapeaux, alors même qu’en face les jeunes issus des minorités sont de moins en nombreux. Le youth bulge syrien, l’explosion démographique des jeunes à l’âge d’entrée dans l’armée, est uniquement l’affaire de la majorité. Entre 1963 et 2012, leurs effectifs ont été multipliés par 5,3 dans la majorité sunnite, mais seulement par 2,4 dans la minorité chiite.

L’impossible partition

Devant ce conflit qui s’éternise, d’aucuns en viennent à penser que l’ultime recours serait la partition du pays et la création d’un mini-état alaouite, d’un réduit ou d’une zone de repli dans la zone côtière —une nouveauté dans la région, où le Liban a connu seize ans de guerre civile et a réussi à échapper à la partition, de même que l’Irak malgré la région autonome kurde.

Mais ce sont surtout des raisons démographiques qui rendent ces projets chimériques. En 2012, le «réduit» alaouite compte 1,8 million d’habitants. Sa population se décompose en 1,2 millions d’alaouites et 665.000 non alaouites, dont 340.000 sunnites, les plus exposés aux transferts de population en cas d’aggravation du conflit. Les autres communautés des deux gouvernorats de Lattaquié et Tartous, chrétiens et ismaéliens, seraient moins exposés.

Mais en dehors de ces deux gouvernorats, la Syrie compte un million d’alaouites, presque autant qu’à Lattaquié et Tartous. Pour la plupart, ils sont désormais très enracinés dans leurs lieux de vie et n’entretiennent plus que des liens ténus avec leurs villages ou leurs villes d’origine. Ces chiffres imposants montrent bien toute la démesure d’un découpage de la Syrie, inimaginable du fait du brassage de ses populations.

Youssef Courbage pour Slate.fr


A lire sur le sujet, de Youssef Courbage: Christian and Jews under Islam (avec Philippe Fargues, Tauris, 1998); «La population de la Syrie: des réticences à la transition (démographique)», in Baudoin Dupret, Youssef Courbage et al., La Syrie au présent, reflet d’une société (Paris, Actes-Sud, 2007).

D’autres auteurs: Jacques Weulersse, Le pays des Alaouites (Tours, 1940); Etienne de Vaumas, «Le Djebel Ansarieh. Eude de géographie humaine», Revue de géographie alpine (1960); Hana Batatu, Syria’s peasantry, the descendants of its lesser notables, and their politics, (Princeton U.P., 1999); Fabrice Balanche, La région alaouite et le pouvoir syrien(Karthala, 2006).

[1] Dans l’ensemble de ce pays de 21,6 millions d’habitants, la transition démographique piétine. Malgré la baisse rapide de la mortalité infantile (18/1000), la fécondité reste élevée et constante, avec 3,5 enfants lors de l’enquête sur la santé de la famille de 2009, ce qui situe la Syrie au rang des pays arabes les plus féconds (70% de plus que la Tunisie, 60% de plus que le Maroc, deux fois plus que le Liban). Avec des différences régionales phénoménales: les gouvernorats de minorités, Lattaquié et Tartous, ou celui de Soueida, où la fécondité est désormais très basse, ne croissent qu’au rythme de 1,6%, l’an contre 2,5% pour le reste du pays. Revenir à l’article

[2] A l’époque ottomane, la population de la Syrie était recensée selon la religion: musulmane (sans distinction des confessions détaillées), chrétienne (confessions détaillées) et juive. Sous le mandat français, les recensements mentionnaient la confession précise. Les recensements ultérieurs de 1947 et de 1960 donnaient la religion, mais non la confession précise, habitude qui fut abandonnée avec le recensement de 1970. L’état civil, en revanche, a longtemps continué à mentionner la religion pour les musulmans et les chrétiens, précisant pour ces derniers leur confession détaillée.

Les estimations actuelles sont fondées sur des projections démographiques réalisées à partir de données anciennes, des évaluations effectuées par des spécialistes du milieu syrien (Balanche, de Vaumas, Weulersse) et sur des imputations de certains paramètres démographiques à partir de données régionales (par exemple les gouvernorats de Lattaquié et Tartous pour les alaouites, celui de Soueida pour les druzes). On a donc en main des ordres de grandeurs raisonnables, mais en aucun cas des chiffres irréfutables à 100% comme auraient pu l’être ceux de recensements qui mentionneraient la confession détaillée ou la langue maternelle.

mardi, 16 octobre 2012

La Turquie à la croisée des chemins

La Turquie à la croisée des chemins : du « zéro-problème » au maximum d’ennuis

par Ramzy Baroud 

 
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Le consensus dans la presse a été général, ou du moins est-ce ce qui parait : la Turquie est imbriquée dans un désordre au Moyen-Orient qui n’est pas de son fait, alors que son « Zéro problème avec les voisins » – un moment la pièce maîtresse de la politique étrangère du Parti de la Justice et du Développement (AKP) – s’est avérée être une notion romantique de peu d’utilité en realpolitik.

Le but de la politique étrangère de la Turquie, « construire les liens forts économiques, politiques, et sociaux avec les voisins immédiats du pays tout en diminuant sa dépendance envers les États-Unis semblait être en vue, » écrivait Sinan Ulgen presque il y a presque un an. « Mais le Printemps arabe a exposé les vulnérabilités de la politique, et la Turquie doit maintenant chercher un nouveau principe directeur pour son engagement régional. »

Cette analyse n’était pas isolée et elle a été reprise de nombreuses fois. Elle suggère une certaine naïveté dans la politique étrangère turque et fait apparaître ses ambitions régionales comme désintéressées. Elle imagine également que la Turquie a été rattrapée par une série d’événements fâcheux, lui forçant la main pour agir de manière contradictoire avec ce qui devrait être sa véritable politique. Cette vision des choses n’est pas tout à fait exacte.

Les escarmouches récentes entre la Syrie et la Turquie qui ont commencé le 4 octobre, par des tirs d’obus de mortier depuis le côté syrien et qui ont coûté la vie à 5 personnes, dont 3 enfants, ont été « le dernier sang versé par la Turquie ». L’agence de presse turque Anadolu a rapporté les excuses syriennes officielles par le canal des Nations Unies peu après le bombardement, et le gouvernement syrien a promis une enquête, dont le sérieux demeure douteux. Mais les militaires turcs ont rapidement exercé des représailles, alors que le parlement venait de voter la prolongation d’une année le mandat qui leur permet d’exécuter des opérations trans-frontalières. Indépendamment de la violence à la frontière de la Syrie, ce mandat visait à l’origine les combattants kurdes du nord de l’Irak et il avait été déjà inscrit pour un vote mi-octobre.

L’évolution de la situation semble singulièrement irréelle. Il y a peu de temps encore, le Premier Ministre Turc Recep Tayyip Erdogan avait pris l’initiative d’un rapprochement avec la Syrie et l’Iran, au mécontentement d’Israël et des États-Unis. Il s’était référé au Président Syrien Bashar Al-Assad comme à « un frère », sachant bien toutes les implications politiques du terme employé. Quand la Turquie a voté contre des sanctions à l’égard de l’Iran aux Nations Unies en juin 2010, « elle a provoqué une crise, » selon un article du Wall Street Journal. Plus tard, la Turquie s’était disputée avec l’OTAN au sujet de l’initiative d’un nouveau système de missiles qui vise clairement l’Iran et la Syrie. « La Turquie est le opt-out [le participant qui se désengage - N.dT] de l’Alliance dans les pays Musulmans, » disait le même journal. Ces développements se produisaient dans la foulée de l’incursion militaire israélienne meurtrière contre le bateau turc Mavi Marmara, qui transportait de nombreux militants pacifistes turcs dans le cadre d’une initiative plus large – La Flotille de la Liberté de Gaza – destinée à briser le siège sur Gaza. Israël a assassiné 9 civils turcs et en a blessé beaucoup d’autres.

Erdogan comme d’autres officiels turcs, s’était élevé au rang de superstar parmi les peuples arabes, au moment ou justement l’un d’eux évinçait le Président égyptien Hosni Mubarak, lui-même complice dans le siège de Gaza. Tout naturellement, l’AKP devint un modèle politique, le sujet de débats universitaires sans fin ou à la télévision. Même culturellement et économiquement, la Turquie représentait alors une particularité dont il fallait débattre.

À l’intérieur, Erdogan et son parti étaient crédités d’une croissance économique massive et d’avoir su la gérer, et d’avoir pu – dans le cadre d’un système démocratique à présent contrôlé par des civils élus – mettre au pas un état-major militaire qui avait toujours été enclin aux coups d’État. À l’extérieur, Erdogan et son Ministre des Affaires Étrangères Ahmet Davutoglu, avaient réussi à partiellement briser l’isolement de la Turquie vis-à-vis de plusieurs dirigeants arabes, dont le libyen Mouammar Kaddafi. (Les dirigeants turcs s’étaient tout à fait rendus compte des récriminations des peuples arabes tandis qu’ils concluaient des contrats valant des milliards de dollars avec les dictateurs mêmes qu’ils ont aidé à évincer, ou encouragé à ce qu’ils soient renversés.) Bien que la sérieuse dispute d’Ankara avec Tel Aviv n’ait pas entraîné de changement côté israélien ou américain envers les Palestiniens, il y eut un sentiment de réelle satisfaction que, enfin, un pays assez fort comme la Turquie ait eu le courage de s’opposer à l’intransigeance et aux insultes israéliennes.

Puis la Tunisie renversa son président, et les cartes de la politique étrangère de la Turquie ont été mélangées comme jamais auparavant. Si les États-Unis, la France et d’autres pouvoirs occidentaux étaient en pleine contradiction dans leurs positions concernant les soulèvements, les révolutions et les guerres civiles qui ont traversé le Moyen-Orient et l’Afrique Du Nord ces 18 derniers mois, la politique étrangère de la Turquie fut particulièrement embrouillée.

Tout d’abord, la Turquie répondit d’une façon qui paru distante avec de brefs discours au sujet des droits, de la justice et de la démocratie des peuples. En Libye, les enjeux étaient plus élevés car l’OTAN était acharnée à contrôler les implications des révoltes arabes toutes les fois que cela lui était possible. La Turquie fut le dernier membre de l’OTAN à se joindre la guerre contre la Libye. Le délai s’est avéré coûteux car les médias arabes qui poussaient à la guerre s’en sont pris à la réputation et à la crédibilité de la Turquie.

Quand les Syriens se sont rebellés, la Turquie était cette fois prête. Elle s’appliqua à prendre très tôt l’initiative d’appliquer ses propres sanctions à Damas. Puis elle alla encore plus loin en refusant de voir que sa zone frontalière autrefois si bien gardée, se retrouvait inondée par la contrebande, le transport d’armes et les combattants étrangers. En plus d’accueillir le Conseil National de la Syrie, elle a également fourni un asile sûr à l’Armée Libre de la Syrie, qui a lancé sans aucun frein ses attaques depuis la frontières turque. Tandis que tout cela était justifiée au nom de la lutte contre l’injustice, c’était en fait une des principales raisons qui ont mis une solution politique hors de portée. La Turquie a transformé un conflit ensanglanté et brutal en une véritable lutte régionale. Le territoire syrien s’est retrouvé exploité pour un conflit indirect impliquant divers pays, camps politiques et idéologies. Et comme la Turquie est un membre de l’OTAN, cela signifiait que l’OTAN était aussi impliquée dans le conflit avec la Syrie, même si c’est d’une manière moindre que lors de sa guerre contre la Libye.

Naturellement, la dimension kurde dans le rôle de la Turquie en Syrie est énorme. Il est plus rarement mentionné dque la Turquie s’active en permanence à contrecarrer n’importe quel contrecoup venant des Kurdes dans la région du nord-est de la Syrie, qui risquent d’ouvrir un nouveau front, le premier étant grande partie confiné au nord de l’Irak. Écrivant dans le quotidien turc Zaman, Abdullah Bozkurt a parlé « d’une stratégie hautement risquée pour la Turquie, qui veut contrôler les rapides développements en Syrie du nord grâce aux services du Gouvernement Régional du Kurdistan dans l’Irak voisin, afin d’éviter d’être directement impliquée en Syrie. » De plus, Ankara a discrètement fait pression sur le SNC pour que celui-ci adopte une posture plus favorable vis-à-vis de la question kurde. Bozkurt a aussi rapporté que « Ankara a en toute discrétion poussé le SNC à élire en juin un indépendant kurde, Abdulbaset Sieda, en tant que dirigeant de compromis… afin que la Turquie puisse exercer son influence sur les environ 1,5 millions de Kurdes en Syrie. »

En effet, le ainsi-nommé Printemps arabe a rendu confuse la politique étrangère turque à l’égard des pays arabes, et même vis-à-vis de l’Iran, bien qu’il ait ensuite entraîné sa redéfinition. La Turquie était plutôt passive avant ou après les bouleversements. L’impression que la Turquie était restée en retrait et que les affrontements à sa frontière sud ont finalement poussé Ankara à s’impliquer, est cependant incorrecte et trompeuse. Indépendamment de la façon dont les politiciens turcs souhaitent justifier leur participation aux conflits, il n’y a aucune échappatoire possible au fait qu’ils ont participé à la guerre contre la Libye et qu’ils sont maintenant empêtrés, dans une certaine mesure volontairement, dans le brutal désordre qui règne en Syrie.

La triste ironie est que quelques heures après que la Turquie ait exercée des représailles aux tirs d’obus par la Syrie, le ministre israélien Dan Meridor se soit autorisé à déclarer aux journalistes à Paris qu’une attaque contre la Turquie était une attaque contre l’OTAN – manifestation sournoise d’une solidarité calculée. Il a ajouté que « si le régime d’Assad devait tomber, ce serait un coup déterminant contre l’Iran. » Avigdor Lieberman, le ministre israélien des Affaires Étrangères avait du mal à cacher son excitation, car ce que les néoconservateurs américains ont du mal à accomplir est maintenant mis en œuvre par procuration. Lieberman – pas vraiment ce que l’on peut appeler un visionnaire – a prédit l’irruption « d’un Printemps persan » qui selon lui, doit être soutenu. Pour Israël et les États-Unis, maintenant que la Turquie est embarquée pour de bon, les possibilités sont sans fin.

Ankara doit reconsidérer son rôle dans cette calamité qui ne cesse de s’aggraver et adopter une politique plus raisonnable. La guerre ne devrait pas être à l’ordre du jour. Trop de gens ont déjà été tués.

Ramzy Baroud (http://www.ramzybaroud.net), un journaliste international et directeur du site PalestineChronicle.com. Son dernier livre, Mon père était un combattant de la liberté : L’histoire vraie de Gaza (Pluto Press, London), peut être acheté sur Amazon.com. Son livre, La deuxième Intifada (version française) est disponible sur Fnac.com

lundi, 15 octobre 2012

Une nouvelle doctrine américaine : contenir l’Eurasie par le chaos

Pierre DORTIGUIER:

Une nouvelle doctrine américaine : contenir l’Eurasie par le chaos

 
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Le magazine texan Stratfor que nous citons, et auquel nous renvoyons, The Emerging Doctrine of the United States | Stratfor est un thermomètre de la température américaine et vise surtout à préparer l’opinion à distinguer entre les intérêts apparents et réels des Etats-Unis, à court et à long terme, ; il n’est donc pas destiné à un très vaste public, ni non plus formellement confidentiel, mais répond aux questions des élites déconcertées par le tapage médiatique « à usage de l’Américain moyen »

« Au cours de la fin de semaine dernière, des rumeurs ont commencé à émerger que l’opposition syrienne permettrait  à des  éléments  du « régime d’Assad » (sic)  à rester en Syrie et de participer au nouveau gouvernement. …  Ce qui se passe en Syrie est importante pour une nouvelle doctrine étrangère émergente aux États-Unis – une doctrine selon laquelle  les États-Unis ne prennent pas la responsabilité principale des événements, mais qui permet  aux crises régionales de se déployer jusqu’à ce qu’un nouvel équilibre régional soit  atteint. »

Le magazine simplifie volontairement, par souci de pédagogie la formule géopolitique U.S, en insistant sur  ses « intérêts fondamentaux » », à savoir e que assure la base de la prospérité américaine : « cela se résume à l’atténuation des menaces contre les Etats-Unis par le contrôle des mers  en empêchant l’émergence d’une puissance eurasienne qui serait en mesure de mobiliser des ressources à cette fin. Cette nouvelle doctrine consiste « à empêcher le développement d’une substantielle puissance nucléaire intercontinentale qui pourrait menacer les Etats-Unis, au cas où un pays ne serait pas découragé par la puissance américaine pour un motif quelconque. »

Dans cette perspective de maintien de supériorité « l’intérêt américain pour ce qui se passe dans le Pacifique est compréhensible .Mais même là les Etats-Unis, du moins pour l’instant, laissent les forces régionales s’engager dans une lutte qui n’a pas encore affecté l’équilibre régional de la puissance des Alliés américains, et les mandataires de cette puissance, comprenant les Philippines, le Viêt-Nam et le Japon ont été joué aux échec des les mers de cette région »  –sous entendu contre la Chine, et l’on notera que le Viêt-Nam est dans la sphère politique antichinoise depuis sa dernière lutte frontalière, au mépris des sacrifices nationaux antérieurs !- »sans une imosition directe de la puissance navale américaine, même si une telle perspective », conclut Stratfor Global Intelligence, « semble possible » !

Viennent maintenant les leçons que les Américains auraient tiré des derniers engagements ! la campagne d’Irak et la résistance irakienne ont conduit au retrait des forces US et l’iran y aurait gagné une plus grande puissance et un sentiment de sécurité.

La campagne libyenne est présentée –avec une certaine hypocrisie- comme une initiative française et aurait été  plus difficile, voire un échec, sans le soutien de l’aviation US.

La guerre syrienne, naturellement justifiée par l’influence croissante de l’Iran, et visant moins un Etat que ses relations étrangères avec l’Iran, la Russie et la Chine amène à  préciser cette nouvelle politique ; le conflit est régional, les Alliés des Américains sont chargés de l’entretenir, même sans arriver à une solution radicale, et l’auteur Friedmann raconte qu’il a exposé ceci à ses interlocuteurs d’Asie centrale qui espéraient voir un engagement plus net des forces US !

Les conséquences en sont une poursuite indéfinie de la lutte intestine en Syrie et une pression continue sur l’Iran, dans laquelle l’arme économique prime sur tout affrontement utopique militaire.  Ce qu’il importe est de bien lire la conclusion de l’analyse, qui montre que les Etats-Unis sont  eux-mêmes dirigés par une force occulte qui veut l’affrontement général en négligeant les embrasements locaux.
Il s’agit de tester la force de la puissance émergente russo-chinoise !

«  Cela a forcé la fois le régime syrien et les rebelles de reconnaître l’improbabilité d’une victoire militaire pure et simple. Tant le soutien de l’Iran au régime et les diverses sources de soutien à l’opposition syrienne se sont révélés  indécis. Les rumeurs d’un compromis politique émergent en conséquence.

Dans le même temps, les États-Unis ne sont pas prêts à s’engager dans une guerre avec l’Iran, ni prêts  à souscrire à l’attaque israélienne en l’accompagnant de leur soutien avec le soutien militaire . Les USA utilisent  un moyen efficace de pression – des sanctions – qui semblent  avoir eu un certain effet par  la dépréciation rapide de la monnaie iranienne . Mais les Etats-Unis ne cherchent pas à résoudre la question iranienne, il n’est pas prêt à assumer la responsabilité principale, sauf si l’Iran devient une menace pour les intérêts fondamentaux des États-Unis. Il se contente de laisser les événements se dérouler et à n’agir que s’ il n’y a pas d’autre choix

Les Etats-Unis ne sont pas prêts à intervenir par la force militaire conventionnelle.

Cela ne signifie pas que les États-Unis se désengagent  de la scène mondiale. Ils contrôlent  les océans du monde et génèrent  près d’un quart du PNB mondial du produit intérieur. Alors que le désengagement est impossible, l’ engagement contrôlé, basé sur une compréhension réaliste de l’intérêt national, est possible.

Cela va bouleverser  le système international, en particulier celui des alliés américains. Il créera également des contraintes aux États-Unis à la fois de la gauche politique, qui se veut une politique étrangère humanitaire, et le droit politique, qui définit l’intérêt national au sens large. Mais les contraintes de la dernière décennie pèsent  lourdement sur les Etats-Unis et vont donc changer la façon dont le monde fonctionne.

Le point important est que personne ne décide cette nouvelle doctrine. Il émerge de la réalité à laquelle les  Etats-Unis sont confrontés. C’est la force des  de doctrines qui se font jour. Elles se manifestent d’abord et sont annoncés quand tout le monde se rend compte que c’est comme ça que les choses fonctionnent. »

Une fois cette leçon de la Stratfor bien lue, une question se pose : qui dirige la politique US, l’intérêt national capitaliste-come partout, avec ses limites et ses confrontations  ou une politique impériale qui prend les Etats-Unis pour écran et vise à non pas bâtir un ordre, mais régler un désordre général, la maintenir par sa théorie du chaos minimum, abattre un adversaire fort, plutôt qu’imposer la puissance qu’elle n’a pas ? A cet égard, une alliance avec les USA est un chèque en blanc donné à un inconnu !

Pierre Dortiguier

Generalsekretär Rasmussen: Nato bereit zum Schutz der Türkei

Generalsekretär Rasmussen: Nato bereit zum Schutz der Türkei

Mikhail Fomitchew

 
otan-turquie-copie-1.jpgLaut dem Nato-Generalsekretär Anders Fogh Rasmussen ist die Nordatlantikallianz bereit, die Türkei zu schützen, falls dies notwendig sein sollte, und hat eine solche Maßnahme bereits geplant.

„Wir haben die notwendigen Pläne, um die Türkei nötigenfalls zu schützen“, so Rasmussen zu Journalisten vor der Eröffnung eines zweitägigen Treffens der Verteidigungsminister der 28 Nato-Mitgliedsländer.

Der Nato-Rat erörterte bei einem Treffen auf Botschafterebene am 4. Oktober den Beschuss eines Grenzterritoriums der Türkei durch die syrische Armee und verurteilte diesen Zwischenfall entschieden.

Gemäß dem Artikel 4 des Washingtoner Vertrages kann jedes Mitglied der Allianz um Konsultationen bitten, wenn seine territoriale Integrität, politische Unabhängigkeit oder Sicherheit gefährdet werden.

Zuvor hatte ein Gesprächspartner von RIA Novosti im Nato-Hauptquartier versichert, dass die Anwendung des Artikels 5 des Washingtoner Vertrages, der eine Antwort der Nato im Falle einer Aggression gegen eines der Mitgliedsländer dieses militärpolitischen Blocks vorsieht, bei dem Treffen nicht erwähnt worden sei. Der Artikel 5 wurde lediglich einmal - nach den Terroranschlägen auf die USA  am 11. September 2001 - angewendet.

Die Nato und die Uno forderten bei diesem Treffen von Syrien, jegliche Aggressionsakte gegen die Türkei  unverzüglich einzustellen. Die syrischen Behörden drückten ihrerseits den hinterbliebenen Familien der Toten ihr Beileid aus und erklärten, dass sie zu diesem Zwischenfall ermitteln.

Der Konflikt zwischen Syrien und der Türkei spitzte sich zu, nachdem vom syrischen Territorium abgefeuerte Artilleriegeschosse im Distrikt Aksakal im Südosten der Türkei explodiert waren. Im Ergebnis kamen fünf Menschen ums Leben und elf weitere wurden verletzt. Als Antwort auf den Beschuss führte die Türkei Schläge gegen das syrische Gebiet, von wo aus das Feuer geführt wurde.

Nato-Generalsekretär Anders Fogh Rasmussen hatte zuvor mehr als einmal betont, die Allianz habe nicht die Absicht, sich in den syrischen Konflikt einzumischen.
 
 
 
 

L’Atlantisme est un totalitarisme

L’Atlantisme est un totalitarisme

par Guillaume de ROUVILLE

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

L’Atlantisme est l’idéologie dominante des sociétés européennes actuelles, celle qui aura sans doute le plus d’influence sur le devenir de nos destinées communes et pourtant elle est de ces idéologies presque cachées dont on ne parle ouvertement que dans le cercle restreint du monde alternatif. Sont Atlantistes tous les collaborateurs européens de la vision hégémonique des États-Unis et de son idéologie propre qui répond au doux nom d’impérialisme. Autrement dit, l’Atlantisme est l’idéologie des exécutants serviles de l’idéologie impériale américaine ; elle lui est subordonnée et ne tire de sa soumission que les miettes de l’empire tombées à terre après le festin des empereurs.

C’est une idéologie mineure dans l’idéologie majeure. Elle est à la fois  honteuse et conquérante : honteuse parce qu’elle ne joue jamais que les seconds rôles ; conquérante, parce qu’elle emprunte à son maître d’outre-atlantique ses visions hégémoniques délirantes et toutes ses caractéristiques totalitaires. C’est un totalitarisme dans le totalitarisme, une domination de dominés, un impérialisme de serfs et d’esclaves passés maîtres dans l’art de se soumettre. Parler de l’Atlantisme européen c’est parler du projet impérial américain et réciproquement. La seule chose qui les distingue est leur place dans la hiérarchie totalitaire : le premier n’est que l’émanation du second, ne se définit que par lui, se contente de l’imiter et lui obéit en tout ; il n’est, en revanche, son égal en rien.

Chaque continent a ses collaborateurs au service de l’impérialisme américain, chaque zone d’influence de ce dernier a son atlantisme à lui. Nous aurions pu ainsi nous contenter d’évoquer les caractéristiques totalitaires de l’impérialisme américain pour comprendre l’Atlantisme. Mais, la position de subordination que les Européens ont adopté par rapport à leur modèle nord américain est le résultat d’un choix de nos élites auquel nous devons nous confronter directement, plutôt que de rejeter toute forme de responsabilité sur l’oligarchie américaine. Prenons notre part de responsabilité, voyons-nous tels que nous sommes, accomplissons un travail d’introspection nécessaire avant de relever la tête et de retrouver notre dignité. Car, avant de pouvoir se rebeller contre ses maîtres, il faut se percevoir comme esclave et reconnaître la part de consentement et de lâcheté qu’il y a dans cette situation.

D’un totalitarisme l’autre

Les caractéristiques de cette idéologie sont nombreuses et ne revêtent pas toutes la même importance, mais elles dessinent très clairement une idéologie totalitaire ayant ses spécificités propres qui ne se retrouvent pas nécessairement telles quelles dans les totalitarisme érigés en momies d’observation comme le stalinisme ou le nazisme. Il ne nous semble pas utile, en effet, de comparer l’Atlantisme à d’autres totalitarismes passés de mode, car on peut être un totalitarisme à part entière sans partager toutes les caractéristiques de ses modèles les plus achevés, modèles qui appartiennent à une autre époque.

Il y a plusieurs degrés dans le totalitarisme atlantiste ; comme il y a plusieurs manières de le subir. Selon que l’on est un peuple d’Afrique ou du Moyen Orient ou un citoyen allemand ou français appartenant à la classe des favorisés, on ne vit pas de la même manière le totalitarisme atlantiste. S’il est globalement meurtrier, il peut être localement bénéfique pour une minorité. Autrement dit,le totalitarisme atlantiste est à géométrie variable (c’est son caractère ambigu) : tantôt impitoyable et brutal avec les uns, il peut être plus tranquille et pourvoyeur de certains bienfaits pour ceux qui le respectent et courbent l’échine devant sa puissance. Il n’en est pas moins présent partout et ne tolère guère la contestation quand cette dernière revêt un caractère menaçant pour son emprise.

Car, si vous pouvez contester ses caractéristiques mineures et jouir, pour se faire, de la plus totale liberté, vous ne serez pas autorisé à vous attaquer, dans la force des faits[1], à ses fondamentaux : (1) le libéralisme financier et la puissance des banques, (2) la domination du dollar dans les échanges internationaux, (3) les guerres de conquête du complexe militaro-industriel – pour, notamment, l’accaparement des ressources naturelles des pays périphérique à ses valeurs - ; (4) l’hégémonisme total des États-Unis (dans les domaines militaire, économique, culturel) de qui il reçoit ses directives et sa raison d’être ; (5) l’alliance indéfectible avec l’Arabie saoudite (principal État terroriste islamique au monde) ; (6) le soutien sans faille au sionisme.

L’Atlantisme, c’est, en effet, un totalitarisme qui définit une liberté encadrée, bornée aux éléments qui ne la remettent pas en cause ; une liberté sans conséquence ; une liberté sans portée contestataire ; une liberté consumériste et libidinale ; une liberté impuissante. C’est une liberté qui nous adresse ce message : « Esclave, fais ce que tu veux, pour autant que tu me baises les pieds et que tu travailles pour moi ».

Il convient, pour juger du caractère totalitaire ou non de l’Atlantisme, de le prendre en bloc et de voir s’il opprime, s’il tue en masse, à un endroit quelconque de cette planète. Il nous importe peu qu’il puisse être tolérable pour des populations entières (les élites occidentales et leurs protégés), s’il doit se rendre terrible et impitoyable pour le reste de l’humanité, sa mansuétude à l’égard de certains ne le rendant pas meilleur ou moins criminel. Ainsi, son ambiguïté est le résultat de la perception que nous pouvons en avoir lorsque nous nous plaçons dans la peau de l’homme blanc Occidental. Car, si nous essayons un instant de nous mettre à la place des Irakiens, des Libyens, des Syriens (parmi tant d’autres), son essence perd son ambiguïté et se révèle pour ce qu’elle est : une puissance criminelle qui pervertit l’humanité et les valeurs démocratiques.*

Portrait du totalitarisme par lui-même

Voyons, à présent, à grands traits et pour nous donner quelques repères, les principales caractéristiques qui nous permettent de dire que l’Atlantisme est bel et bien un totalitarisme.

1. L’Atlantisme est un impérialisme 

“What should that role be? Benevolent global hegemony. Having defeated the « evil empire, » the United States enjoys strategic and ideological predominance. The first objective of U.S. foreign policy should be to preserve and enhance that predominance by strengthening America’s security, supporting its friends, advancing its interests, and standing up for its principles around the world”. Toward a Neo-Reaganite Foreign Policy, de William Kristol et Robert Kagan, Foreign Affairs, juillet/aout 1996.

C’est une idéologie qui sert un État militarisé (les États-Unis[2]) qui a recours (a) à la terreur - guerres préventives, enlèvement, déportations dans des camps de torture, assassinats extrajudiciaires quotidiens, etc.- (b) à la peur – menace terroriste instrumentalisée auprès de ses populations et (c) aux menaces – de rétorsions économiques contre les États récalcitrants, de guerres tous azimuts, de coups d’États – pour imposer sur la surface du globe sa vision ultra-libérale et pour s’accaparer, par la force létale, les ressources naturelles dont elle pense avoir besoin pour sa domination.

C’est une idéologie au service d’une vision hégémonique de la puissance américaine. Cette dernière revendique son caractère hégémonique : (i) dans le domaine militaire, à travers les think tanks néoconservateurs comme le Project for a New American Century (et sa volonté affichée d’empêcher l’émergence d’une puissance capable de rivaliser avec celle des États-Unis) ou l’American Entreprise Institute et, enfin, à travers sa doctrine militaire officielle intitulée Full Spectrum Dominance ; (ii) dans le domaine économique et financier avec, entre autre, l’imposition du dollar comme monnaie d’échange international ; (iii) dans le domaine culturel, par la mise en place d’un programme de corruption des élites occidentales et internationales à travers, notamment, l’opération Mockingbird[3] dans les années 50 et le National Endowment for Democracy aujourd’hui.

L’Atlantisme, adhère, sans piper mot et comme un bon soldat, à cette projection planétaire d’un ego qui n’est pas le sien. Sans l’Atlantisme la vision hégémonique des États-Unis ne pourrait pas avoir le caractère global qu’elle a aujourd’hui. L’Atlantisme participe pleinement à l’ensemble des crimes commis au nom de cet ego démesuré, soit directement, soit en les justifiant ou en les transfigurant en ‘actions humanitaires’ auprès de ses peuples.

2. L’Atlantisme est un terrorisme 

“À la fin de la guerre froide, une série d’enquêtes judiciaires menées sur de mystérieux actes de terrorisme commis en France contraignit le Premier ministre italien Giulio Andreotti à confirmer l’existence d’une armée secrète en France ainsi que dans d’autres pays d’Europe occidentale membres de l’Organisation du Traité de l’Atlantique Nord (OTAN). Coordonnée par la section des opérations militaires clandestines de l’OTAN, cette armée secrète avait été mise sur pied par l’Agence centrale de renseignement américaine (CIA) et par les services secrets britanniques (MI6 ou SIS) au lendemain de la seconde guerre mondiale afin de lutter contre le communisme en Europe de l’Ouest.[…] Si l’on en croit les sources secondaires aujourd’hui disponibles, les armées secrètes se sont retrouvées impliquées dans toute une série d’actions terroristes et de violations des droits de l’Homme pour lesquelles elles ont accusé les partis de gauche afin de les discréditer aux yeux des électeurs. Ces opérations, qui visaient à répandre un climat de peur parmi les populations, incluaient des attentats à la bombe dans des trains ou sur des marchés (en France), l’usage systématique de la torture sur les opposants au régime (en Turquie), le soutien aux tentatives de coups d’État de l’extrême droite (en Grèce et en Turquie) et le passage à tabac de groupes d’opposants.” Les Armées secrètes de l’OTAN, Daniele Ganser, Éditions Demi- Lune, page 24.

Des attentats des années de plomb en Italie au conflit en Afghanistan, de la guerre du Kosovo à l’agression contre la Libye et de la déstabilisation de la Syrie à la préparation d’une attaque contre l’Iran[4], le terrorisme est l’un des moyens privilégiés par l’Atlantisme pour l’accomplissement de ses objectifs.

Pour s’imposer à l’Europe de l’après-guerre, l’Atlantisme n’a pas hésité à utiliser la méthode terroriste des attentats sous faux drapeaux : en Italie, par exemple, pour décrédibiliser les forces de gauche les Atlantistes ont posé des bombes, dans les années 60 (attentat de la piazza Fontana à Florence), 70 et 80 (attentat de la gare de Bologne) dans des lieux publics avec l’intention de tuer des innocents. Avec ses relais médiatiques adéquats l’Atlantisme a pu faire passer ces meurtres pour l’œuvre de groupuscules d’extrême gauche et justifier, ainsi, la mise à l’écart de la pensée progressive dans ces pays et assurer le triomphe de leur idéologie.

Aujourd’hui, pour déstabiliser les pays qui contestent l’un de ses six piliers, il instrumentalise à grande échelle, sous l’impulsion des États-Unis, le terrorisme islamique (principalement wahhabito-salafiste) avec l’aide de ses alliés que sont l’Arabie saoudite et le Qatar : en l’a vu à l’œuvre, notamment, en Serbie, en Tchétchénie, en Libye et en Syrie. Il utilise le même levier pour créer des poches de terrorisme qui lui permettent (i) de s’enrichir en vendant des armes et des conseils dans le cadre de la guerre contre le terrorisme, (ii) d’étendre le nombre de ses interventions et bases militaires (celles de l’Otan ou seulement des États-Unis, selon les situations) là où il y voit un intérêt géostratégique et (iii) de donner de la substance à la théorie du choc des civilisations, ce qui lui permet d’obtenir de ses populations l’approbation de ses politiques conquérantes.

Le terrorisme est, plus généralement, au cœur de la doctrine et des stratégies militaires des démocraties occidentales et tout particulièrement de celles des États-Unis (Shock and Awe doctrine) qui les mettent en œuvre, notamment, par l’entremise de l’OTAN (pour plus de détails sur ce sujet, nous renvoyons à un article précédent : Dommages Collatéraux : la face cachée d’un terrorisme d’État).

On le voit bien ici, l’Atlantisme n’est jamais que l’exécutant docile, mais consentant, de l’impérialisme américain à qui il emprunte tous les concepts (guerre contre le terrorisme, choc des civilisations) et les stratégies (instrumentalisation du terrorisme islamique). Quand il le faut (pour gérer son opinion publique interne), l’impérialisme américain laisse aux Atlantistes européens jouer les premiers rôle, mais en apparence seulement, comme en Libye où Nicolas Sarkozy et David Cameron ont rivalisé d’initiatives pour se mettre en avant, alors même que toutes les opérations militaires étaient dirigées, en réalité, par l’armée américaine.

3. L’Atlantisme est un racisme 

“Cette logique du ‘Musulman coupable par nature’, parce que Musulman, est à la base de l’institutionnalisation de la torture par les États-Unis qui peuvent ainsi soumettre à des traitements inhumains des milliers de personnes à travers le monde (Guantanamo n’étant que l’un de ces camps de torture dirigés par l’administration américaine) sur la base d’un simple soupçon de ‘terrorisme’, soupçon qui ne fait l’objet d’aucun contrôle judiciaire. La culpabilité d’un Musulman n’a pas besoin d’être prouvée, elle se déduit de son être même. Il s’agit là d’une forme d’essentialisme, qui est lui-même une forme radicale de racisme”. L’esprit du temps ou l’islamophobie radicale.

Pour justifier sa guerre contre le terrorisme et le choc des civilisations l’Atlantisme stigmatise l’Islam et essentialise le Musulman sous des traits peu flatteurs : le Musulman serait par nature un ennemi des Occidentaux, voire du genre humain, des valeurs démocratiques et de la paix. Une fois essentialisé, il est plus facile d’aller le tuer ; les populations occidentales ne voyant dans les souffrances des Musulmans que les justes châtiments dus à des peuples racailles.

L’islamophobie, le nationalisme pro-occidental et le sionisme – qui est une forme de racisme et d’ethnicisme – sont au cœur de la matrice idéologique atlantiste. Le plus étonnant, sans doute, et le plus inquiétant, est que ces éléments là sont partagés par les élites (et pour partie par les peuples occidentaux) par-delà les clivages politiques droite-gauche. On peut venir à l’islamophobie radicale par des voix opposées : le défenseur de la laïcité y viendra au nom de sa haine des religions, le social-démocrate bobo au nom du féminisme ou de la défense de l’homosexualité ; le conservateur au nom de la protection de ses racines menacées ; le sioniste au nom du droit d’un peuple élu à son espace vital, même si cela doit passer par le nettoyage ethnique d’un autre peuple, etc.

4. L’Atlantisme est un anti-humanisme 

“Depuis 2001, l’Europe a failli à défendre les droits de l’homme sur son propre sol, et s’est rendue complice de graves violations du Droit international au nom de la « guerre au terrorisme ». Des citoyens européens ou étrangers ont été enlevés par les services secrets américains sur le sol européen en dehors de toute disposition légale – ce sont les « extraordinary renditions » – et ont été emmenés dans des prisons secrètes de la CIA dont certaines sont situées dans un pays européen”. ReOpen911.info

Il s’appuie sur le dogme de l’infaillibilité démocratique qui veut que les Occidentaux ne puissent mal agir ni commettre de crimes de masse puisqu’ils représenteraient des sociétés démocratiques ouvertes. Ils sont donc libres de bombarder civils et cibles économiques, d’assassiner des citoyens à travers le monde, de déstabiliser des régimes qui ne leur plaisent pas et, en se faisant, ils ne feront jamais qu’exercer leur droit du meilleur, autre appellation, plus aristocratique, du droit du plus fort. L’autre n’est pas le semblable ou le frère humain ; l’autre c’est l’adversaire, l’ennemi, un être non civilisé, à peine un être. On peut allègrement nier son humanité et le traiter comme une variable géopolitique.

Vaincre ne lui suffit pas, il lui faut déshumaniser, torturer, humilier, violer, dégrader, détruire. Les Atlantistes ont collaboré militairement, économiquement, diplomatiquement, médiatiquement à tous les projets inhumains des États-Unis :  pour s’en tenir à des exemples récents, on pourra citer le camp de torture de Guantanamo (devenu depuis camp d’entraînement de djihadistes au service de l’empire), Abu Ghraib en Irak et l’humiliation des prisonniers, la mort filmée de Kadhafi, les exécutions sommaires (par drones notamment), les enlèvements réalisés par la CIA sur le sol européen (extraordinary rendition) et les dommages collatéraux en Afghanistan, etc.

Dans un autre ordre d’idée, on peut également dire que l’Atlantisme est une aliénation consumériste : l’homme n’est pas sacré ; on peut le tuer pour accomplir des objectifs économiques ou géostratégiques. Cette désacralisation de l’homme qui se fait au profit de la marchandise (dont les marques sont, elles, intouchables) est par essence mortifère. Le profit est plus puissant que l’humanité : en ce qui concerne la France, on pourra évoquer les exemples du scandale du sang contaminé et du Mediator du groupe Servier.

 

Hollande et Jules Ferry

Ce n’est pas un hasard si François Hollande a choisi Jules Ferry comme saint-patron laïque de sa présidence normale. Jules Ferry représente exactement l’idéal atlantiste : l’homme qui est capable d’utiliser la démocratie pour servir les banques et le colonialisme tout en donnant le change au peuple avec quelques concessions sociétales de gauche. Il ne portera jamais atteinte aux piliers de la puissance bancaire et aux capitalistes-colons. Il est conquérant pour les puissants, raciste et a une bonne conscience à toute épreuve malgré les crimes de ses amis partis coloniser les rivages lointains.

 

5. L’Atlantisme est un néo-colonialisme

Si le bras armé de l’Atlantisme est l’Otan, son bras économique est constitué du binome FMI-Banque Mondiale. Ces deux institutions (aux mains des États-Unis et des Européens) ont, pour maintenir les pays en voie de développement dans la dépendance des Occidentaux, utilisé les 3 leviers principaux suivants[5] : (i) l’endettement des États et des peuples[6], (ii) la privatisation de leurs économies et des fonctions régaliennes de l’État au profit des grandes entreprises occidentales (les fameux plans d’ajustement structurels) et (iii) l’ouverture forcée de leurs économies au libre échange et à la concurrence mondiale (alors même qu’ils n’y sont pas préparés et se trouvent vis-à-vis des Occidentaux dans une situation certaine de vulnérabilité).

L’Atlantisme commet des crimes économiques de masse en connaissance de cause pour le profit de quelques élus : en se faisant il démontre son allégeance aux principes de l’ultra-libéralisme prôné par la première puissance mondiale qui subordonne les valeurs humaines au fondamentalisme de marché.*

Pour parvenir à s’imposer l’Atlantisme a besoin (i) de subvertir les souverainetés des nations européennes et (ii) de maîtriser les opinions publiques de ces nations. Il lui faut contourner, affaiblir ou pervertir toutes les composantes démocratiques des sociétés de notre continent pour pouvoir triompher des insoumissions, des doutes, des contestations auxquels il pourrait faire face. Autrement dit, l’Atlantisme s’attaque directement et en profondeur aux fondements de la démocratie des peuples d’Europe à qui il est demandé de suivre aveuglément une idéologie cachée (parce qu’elle est honteuse), innommée (parce qu’elle est innommable) et qui les dépouille de leur souveraineté et de leur libre arbitre. 

L’Atlantisme subvertit les souverainetés nationales 

Sans parler du nombre incalculable de gouvernements démocratiquement élus renversés par les États-Unis avec l’aide directe ou l’approbation tacite de leurs alliés Atlantistes depuis 1945 à travers le monde, et pour se limiter à l’Europe, on peut signaler les cas de la Grèce et de la construction européenne.

En Grèce, aux lendemains de la seconde guerre mondiale, les Britanniques et les États-Unis appuient des mouvements d’extrême droite et d’anciens collaborateurs des Nazis afin d’empêcher la prise de pouvoir légale par les mouvements démocratiques progressistes. Les puissances occidentales atlantistes incitent à la guerre civile qui se solde par la victoire de leurs protégés et par près de 200 000 morts.  Après une évolution démocratique vers la fin des années 60, les Américains, avec l’aide des puissances européennes et grâce à leurs réseaux atlantistes, installent au pouvoir, en 1967, une junte militaire qui proclame le règne de l’ordre moral[7] et la fin de l’ouverture démocratique.

La construction européenne menée par Jean Monnet est avant tout un projet atlantiste. Il y avait bien d’autres manières de conduire la réalisation d’une Europe plus unie. L’Atlantisme a fait le choix de l’impuissance européenne pour ne pas contrarier les ambitions hégémoniques des États-Unis. L’Atlantisme a réduit la souveraineté européenne et mis au pas tous les mouvements indépendants, gaullistes, souverainistes, communistes, qu’ils fussent de gauche ou de droite. Il a imposé ses dirigeants à tous les niveaux de la bureaucratie européenne et à la tête des principaux États de l’Europe qui ont imposé des traités inégaux mêmes lorsque ceux-ci ont été rejetés par les peuples (comme en 2005 avec le Traité constitutionnel).

L’Atlantisme européen a réduit à néant, par étapes successives, l’ensemble des axes de souveraineté dont disposaient les États-nations d’Europe (et donc l’espace démocratique des peuples européens).

Il s’est ainsi attaqué à la souveraineté (i) électorale – le principal organe de décisions est non élu : la Commission ; les traités rejetés par les peuples sont néanmoins imposés ; par la mise à l’écart systématique de la démocratie directe au profit de la démocratie représentative – (ii) monétaire – une banque centrale indépendante des peuples ou de leurs élus qui ne prête pas directement aux États membres qui doivent se financer à des taux plus élevés sur les marchés financiers-, (iii) budgétaire – par l’imposition de la règle d’or et le contrôle des budgets nationaux par une commission composée de technocrates non élus – et (iv) militaire – intégration de l’ensemble des pays européens dans l’Otan.

Le dernier axe de souveraineté auquel l’Atlantisme se soit attaqué est celui de la souveraineté militaire française, la France ayant résisté plus longtemps que les autres nations européennes au rouleau compresseur de l’Atlantisme (ce fut la parenthèse gaulliste). Aujourd’hui les Atlantistes proposent la fusion entre le français EADS et l’anglais BAE afin de retirer à la France le contrôle complet de sa chaîne industrielle d’armement. Demain, ils mettront à mal la dissuasion nucléaire française en s’aidant du prétexte écologique anti-nucléaire.

En France, la mise au pas des non-atlantistes s’est achevée sous la présidence Sarkozy. La diplomatie (avec à sa tête Bernard Kouchner), l’armée, les médias (grâce aux efforts de Christine Ockrent) ont été presque entièrement débarrassés de leurs composantes non altantistes. Hollande, en bon chien de garde de l’Atlantisme, parachèvera l’entreprise.

 

La French-American Foundation et les Atlantico-Boys

La French American Foundation est une organisation à but non lucratif qui se consacre depuis 1976 a dénicher en France les hommes et femmes d’influence qui sont susceptibles de porter les couleurs de l’Atlantisme. 

Quelques anciens Young Leaders de la French American Foundation qui nous gouvernent en ce moment : François Hollande (1996), Arnaud Montebourg (2000), Pierre Moscovici (1996). Dans l’opposition, le plus en vue est Jean-Francois Copé.

Une liste non exhaustive des Atlantico-Boys en France (autres que ceux déjà mentionnés) et de leurs relais : Alain Finkielkraut, André Glucksmann, Bernard Kouchner, Bernard-Henri Lévy, Alexandre Adler, Caroline Fourest, Frédéric Encel, Philippe Val, Francois Heisbourg, Mohamed Sifaoui, Jean-Claude Casanova, Pierre Rosanvallon, Alain Minc, Jean Daniel, Pierre-André Taguieff ; la revue Commentaire, la Fondation Saint Simon (dissoute en 1999), le Cercle de l’Oratoire, l’Institut Turgot, l’Atlantis Institute, les revues Le Meilleur des MondesLa Règle du JeuLe Nouvel ObservateurLe MondeLibération, etc.

 

L’Atlantisme est un contrôle et une manipulation des foules

“The conscious and intelligent manipulation of the organized habits and opinions of the masses is an important element in democratic society. Those who manipulate this unseen mechanism of society constitute an invisible government which is the true ruling power of our country”. Propaganda, par Edward Bernays, 1928. 

“L’Atlantisme a pris naissance au départ de la guerre froide. Dans les années 50, un vaste programme nommé Opération Mockingbird, aujourd’hui bien documenté, a été mis en place par la CIA pour infiltrer les médias nationaux et étrangers, et influencer leurs contenus afin que ces derniers se montrent favorables aux intérêts américains. La méthodologie consistait à placer des rapports rédigés à partir de renseignements fournis par la CIA auprès de journalistes conscients ou inconscients de cette manœuvre. Ces informations étaient ensuite relayées par ces journalistes et par les agences de presse.” ; 11-Septembre : de la misère journalistique à la logique de collabos, de Lalo Vespera, ReOpen911.info

Sans la collaboration des médias, il ne serait possible à l’Atlantisme d’imposer ses fondamentaux dans l’esprit de l’opinion publique. Les médias font partie intégrante de la machine de guerre atlantiste. Pour créer le consentement et l’unanimisme dans une société ouverte il convient de maîtriser la production de l’information. Pour cela il est nécessaire de mettre à la tête des principaux médias des serviteurs zélés de l’Atlantisme. En France, dans le secteur privé des médias, seuls quelques grands groupes industriels appartenant à la nébuleuse oligarchique sont aux commandes (des vendeurs d’armes et des industriels qui vivent en partie grâce aux commandes de l’État) : il est naturel chez eux de servir les intérêts du plus fort (la période de la collaboration avec les Nazis est là pour nous le rappeler[8]). Dans le secteur public, le Président de la République ou ses fondés de pouvoirs choisissent leurs courroies de transmission humaines qui insuffleront l’esprit de soumission dans les rouages de la machine à désinformer.

Les pourvoyeurs de l’information commettent des crimes médiatiques lorsqu’ils se font les relais pur et simple de la propagande atlantiste, comme nous l’avons vu lors de la guerre contre la Serbie, de l’invasion de l’Afghanistan et du bombardement de la Libye par l’Otan, de la guerre en Irak, de la déstabilisation de la Syrie (toujours par l’Otan) ou comme nous le constatons à propos du nettoyage ethnique continu dont sont victimes les Palestiniens. Dans chacun de ces cas, les médias cautionnent les explications officielles, leur donnent force et crédibilité, mettent en avant des intentions humanitaires, alors même qu’elles recouvrent des crimes qui devraient soulever notre indignation et aboutir à la mise en cause judiciaire et politique de leurs principaux responsables.

Le tabou créé autour du 11-Septembre est symptomatique de la manière dont s’échafaude l’unanimisme dans une société où la liberté d’expression et la diversité des points de vue sont sensées régner. On démonise les questionneurs, on pourchasse les têtes brûlées, on les rend responsables des pires crimes du siècle dernier, on les ridiculise. On plante dans l’opinion publique des barrières psychologiques infranchissables (à travers, notamment, les accusations d’antisémitisme, de négationnisme et de révisionnisme) pour que la conscience citoyenne n’aille pas voir ce qu’il y a derrière ; on érige des murs dans les esprits pour enfermer leur consentement dans le champ des possibles atlantistes.

Il y a une forme d’intolérance radicale face à la pensée alternative maintenue enfermée dans le Web. Cette intolérance est radicale en ce sens qu’elle stigmatise les déviants et tente d’en faire des parias à mettre au ban de la société et qu’elle parvient à fermer presque totalement l’accès aux grands médias qui comptent à la pensée dissidente lorsqu’il s’agit d’évoquer et de discuter les fondamentaux de l’Atlantisme.

 

La psyché des Européens au service de l’Atlantisme

« Les Européens ne se sont toujours pas libérés psychologiquement de l’état de dépendance dans lequel ils se sont laissé prendre au sortir de la seconde guerre mondiale. Sous le prétexte que les États-Unis sont venus libérer les Européens il y a plus de 60 ans, il faudrait aujourd’hui que ces derniers abandonnent toute volonté d’indépendance, toute aspiration à choisir un modèle de développement alternatif. Il n’y a aucune logique dans une telle attitude. Faudrait-il que les États-Unis soient éternellement soumis à la France au prétexte que c’est grâce aux armes, aux finances et, en définitive, à la flotte de Louis XVI[9] que les Américains ont pu obtenir leur indépendance de l’Angleterre ? Que les Européens soient reconnaissants pour l’implication des États-Unis dans les deux Guerres Mondiales, cela est normal et bienheureux. Comme il est normal, également, que les Américains soient reconnaissant à l’égard de la France pour le soutien que ce pays leur a apporté à un moment décisif de leur histoire[10]. Mais la reconnaissance ne doit pas déboucher sur la dépendance et la vassalité. Est-il sain que les élites européennes se laissent maintenir dans cette dépendance ou ne cherchent tout simplement pas à la contrer ? Le simple respect de soi-même devrait suffire pour que chacun refuse de se considérer comme le sujet d’une autre personne. Accepter de se soumettre est une attitude morale et psychologique pernicieuse et humiliante. Il y a, en effet, une certaine humiliation à se laisser ainsi dicter son mode de vie et à aller chercher en permanence ses références culturelles, politiques, économiques outre-atlantique sans véritablement questionner leurs valeurs et leurs bienfaits. », La Démocratie ambiguë.*

Conclure pour en finir

Il ne s’agit là que d’un florilège de caractéristiques atlantistes fort incomplet, mais dont les principaux traits nous semblent dresser, à eux seuls, le portrait d’un totalitarisme contemporain non moins dangereux et effrayant que ses prédécesseurs. Qu’il s’invente un ennemi réel ou imaginaire, ou un ennemi qui devient réel à force d’être imaginé (et souhaité), on ne peut excuser les crimes de l’Atlantisme sous le prétexte fallacieux que son alter ego dans le mal (l’islamisme radical) en commettrait également ou que son modèle (le totalitarisme impérial de son maître) lui intimerait l’ordre de les perpétrer. L’Atlantisme a besoin du crime de l’autre pour commettre le sien en toute impunité et avec bonne conscience.

Au bout de sa logique, il y a la mort des autres, la guerre généralisée, la misère du plus grand nombre. L’Atlantisme est bel et bien une idéologie génocidaire, au même titre que l’impérialisme américain. Caractérisation exagérée qui décrédibilise celui qui l’utilise diront certains ? Galvaudage d’un crime qu’on ne peut évoquer à la légère diront d’autres ? Posons-nous alors cette simple question :combien de morts et de souffrances à son crédit (comme auteur ou complice) ? La réponse de l’historien est sans détour : des millions de victimes depuis la fin de la seconde guerre mondiale ; des millions depuis la chute du mur de Berlin[11] et un long fleuve d’ombres, de sang et de souffrances qui ne cessent de couler sur tous les continents.

La lutte contre l’Atlantisme est la grande aventure humaine de ce début de siècle pour nous autres Européens. À chacun d’y prendre part selon ses moyens et ses autres croyances. Que l’on croit au ciel ou que l’on n’y croit pas, que l’on soit misérable ou fortuné, d’ici ou d’ailleurs, chacun peut jouer sa partition dans le combat contre la fatalité de l’Atlantisme qui traînera avec elle, si cela est nécessaire à son triomphe, les cadavres de la démocratie et de la paix jusqu’aux charniers du capitalisme. Le combat contre l’Atlantisme est un humanisme.

Guillaume de Rouville


[1] Les paroles des minorités alternatives sont rarement des faits au sens ou ceux-ci pourraient changer le cours des choses.

[2] Les États-Unis ont un budget militaire annuel équivalent à celui des autres pays combinés.

[3] Voir infra.

[4] En septembre 2012, les États-Unis ont retiré de leur liste des entités considérées comme terroristes l’organisation dissidente iranienne Moudjahidin-e Khalk (MEK) qui perpétue régulièrement des attentats sur le sol iranien.

[5] L’Europe tente, notamment, d’imposer cela à travers ces Accords de Partenariat Économique.

[6] Pour les peuples, par le développement incontrôlé de la microfinance.

[7] À ce sujet voir le film de Costa Gavras : Z.

[8]  Voir : “Le Choix de la Défaite”, d’Annie Lacroix-Riz, Éditions Armand Colin, 2010.

[9] C’est grâce à l’appui décisif de la flotte française, dirigée par le Comte de Rochambeau, que les États-Unis remporteront la bataille de Yorktown en 1781, tournant majeur de la Guerre d’Indépendance.

[10] Lors de la Guerre d’Indépendance des États-Unis contre la Grande-Bretagne, entre 1775 et 1783.

[11] À titre d’exemples : le génocide des indigènes au Guatemala après le coup d’État de 1954 ; l’embargo sur l’Irak qui tua des centaines de milliers d’enfants sur une période de 10 ans ; le dépeçage du Congo depuis plus de 15 ans avec l’aide des grands groupes occidentaux qui a, jusqu’à présent, coûté la vie à près de 4 millions de civils).

dimanche, 14 octobre 2012

Russland und Deutschland feilen an Plan für militärische Kooperation

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Russland und Deutschland feilen an Plan für militärische Kooperation

Der russische Verteidigungsminister Anatoli Serdjukow und sein deutscher Amtskollege Thomas de Maiziére haben sich bei einem Treffen am Montag in Berlin darauf geeinigt, gemeinsam einen Plan für die militärische Zusammenarbeit im kommenden Jahr zu konzipieren. Der Plan soll bis Dezember vorliegen, wie die Sprecherin des russischen Ministers, Irina Kowaltschuk, mitteilte.

Serdjukow, der zu einem offiziellen Besuch in der Bundesrepublik weilt, würdigte die Zusammenarbeit zwischen den Landstreitkräften beider Staaten und sprach sich für eine engere Kooperation im Bereich der Kriegsmarine aus. Die beiden Minister erörterten die militärtechnische Zusammenarbeit und sprachen über internationale Probleme wie den europäischen Raketenschild, die Lage in Afghanistan, im Nahen Osten und in Afrika.

Zudem informierte Serdjukow über die Entstehung des Ausbildungszentrums Mulino an der Wolga. Die Ausbildungsstätte für die russische Armee wird vom deutschen Technologie- und Rüstungskonzern Rheinmetall AG gebaut.

Chipre: Cuando Turquia expulsa y expolia a los Griegos de la isla.

  
 

Enrique Ravello:
Chipre: Cuando Turquia expulsa y expolia a los Griegos de la isla.
Chipre debe su nombre a la palabra latina aes Cyprium (metal de Chipre) en referencia al cobre, metal de gran importancia en la Antigüedad y del que la isla contaba con numerosos yacimientos. Esto, unido a su posición estratégica entre Europa Asia y África, ha hecho que desde los primeros tiempos de la Historia, Chipre haya sido un lugar de conflicto y conquistas entre las potencias de la zona. Siendo ocupada sucesivamente por civilizaciones africanas (egipcios) asiáticas (asirios) y europeas (minoico-micénicos y helenos) hasta pasar a formar parte del Imperio romano en el año 57 a. C. Allí predicaron San Pablo y San Barnabé y Chipre fue el primer lugar del mundo gobernado por un cristiano, aún formando parte del Imperio romano. La romanización de Chipre, supuso le llegada de administradores romanos, pero la mayoría de población siguió siendo de origen helénico establecida allí desde tiempos de Micenas y reforzada tras la invasión de la isla por Alejandro Magno en 331 a. C.
Tras la caída de Roma, la isla fue motivo de constantes disputas entre Bizancio (Imperio romano de Oriente) y los árabes. Siendo conquistada por los cruzados al mando de Ricardo Corazón de León en 1192, quien se llegó a coronar como Rey de Chipre. En las disputas mediterráneas, pasó a formar parte de la Serenísima República de Venecia en 1489 hasta que cayó definitivamente en manos tucas en 1570. Señalar que durante todos estos siglos la composición étnica de la isla se mantuvo estable, hablándose el griego en la totalidad del territorio. La llegada de los otomanos impuso una administración turca, grupos de greco-chipriotas empezaron a formar parte de la misma, varios de ellos se convirtieron al islam para no pagar los impuestos que se encargaban de recaudar al resto de la población, y se familiarizaron con el uso de la lengua turca: éste es el origen de los primeros turco-chipriotas, es decir helenos convertidos al islam, formando parte de la administración otomano y usando el turco también como lengua familiar.
La ocupación otomana terminó en 1878 cuando tras el Congreso de Viena, Chipre pasó a ser un dominio británico, con la categoría de colonia desde 1914. La población chipriota, anhelaba no la independencia de la isla sino la llamada enosis (unión a Grecia), aspiración mayoritaria aún hoy entre la mayoría greco-chipriota En Chipre es imposible ver la bandera de la isla si no es acompaña de la griega –incluso en edificios oficiales- y muy frecuentemente de una amarilla con águila negra, que es la del antiguo Imperio bizantino.  En los años posteriores de la Segunda Guerra Mundial, la enosis es liderada por el famoso arzobispo Makarios, que sería deportado a  las islas Seychelles por los británicos.
Es en 1960 cuando Reino Unido, Grecia y Turquía llegan a un acuerdo que declara independiente la isla, pero mantiene la posesión británica de varias bases militares. Una de las condiciones que puso Londres para esta independencia fue prohibir constitucionalmente la unión de Chipre con Grecia. La constante británica de evitar la creación e grandes Estados en Europa que puedan convertirse en potencias locales. De haberse unido Chipre y Grecia en ese momento, seguramente se hubiera evitado la posterior invasión turca del norte de la isla.
 
Turquía ocupa el norte de Chipre. Limpieza étnica y expolio del patrimonio greco-chipriota
En 1974 hay un golpe pro-griego en Chipre apoyado por la “Dictadura de los coroneles” desde Grecia cuya finalidad era incorporar Chipre al Estado heleno. Este hecho provocó la reacción turca, que invadió militar m ente el norte de la isla, proclamando unilateralmente la República Turca del Norte de Chipre (RTNC), estado no reconocido por ningún otro país, excepto la propia Turquía y la Conferencia Islámica. Casi 40 años después, del aquel golpe y de la dictadura de los coroneles sólo queda el recuerdo, sin embargo el norte de Chipre sigue ocupado militarmente por Ankara y esa autoproclamada RTNC se mantiene detrás de una frontera militar que el ejército turco ha trazado para defenderla.
 
El pasado 29 de septiembre tuve la oportunidad de visitar la zona junto a una delegación del Parlamento europeo compuesta por miembros del FPÖ, el VB y el Front National. Visita que sirvió para comprobar in situ la realidad de la isla, y de la limpieza étnica y expolio del patrimonio que se lleva desde la zona turca. La vista empezó en la Fundación Makarios III –el nombre del arzobispo al que hemos hecho referencia anteriormente- allí se exhibe una magnífica colección de iconos que se han logrado recuperar recientemente. Todos ellos provienen de iglesias greco-ortodoxas que en 1974 quedaron en zona turca, las iglesias fueron abandonas y sus murales e iconos bizantinos despedazados por los turcos para ser vendidos por mercaderes de arte en circuitos ilegales; el gobierno greco-chipriota pudo descubrir este expolio y recuperar gran parte de estos tesoros iconográfico que ahora son exhibidos en un museo a cargo de la mencionada fundación. La vista continúo con la recepción oficial por parte del obispo de Kernia (Karinia), cuya diócesis esta de pleno en zona turca donde tiene prohibida la entrada; él –como la mayoría de fieles de su diócesis- vive en la zona griega tras haber sido expulsados por los turcos de sus hogares y de sus iglesias, ejemplo de fe y voluntad, no dan por perdida su tierra y sueñan con volver allí cuando Chipre esté reunificado y pacificado.

Fresco bizantino roto por los turcos
Finalmente en varios coches particulares atravesamos la frontera militar que separa la zona de ocupación turca del resto de la isla. Allí pudimos comprobar cómo las iglesias y cementerios ortodoxos habían sido abandonados y profanados por los turcos. Vimos también como entre la población local los antiguos turco-chipriotas son una minoría, el grueso de la misma la constituyen turcos venidos del interior de Anatolia. Históricamente los turcófonos eran poco más del 10% de la población distribuida por toda la isla, hoy son el 18% todos concentrados en el norte, mientras que los griegos que históricamente también poblaban esa parte norte fueron expulsados en 1974.  Hoy la zona turca vive exclusivamente de las subvenciones mensuales que reciben todos sus habitantes directamente del gobierno turco, sin que tengan la más mínima producción ni actividad económica. El Gobierno de Ankara ha decidido colonizar la zona con la gente más pobre y atrasada de su país y para ello necesita subvencionarlos constantemente; ni que decir tiene que una de las primeras víctimas de este proceso de limpieza étnica y colonización han sido los propios turco-chipriotas anteriores a 1974 hoy concentrados en el norte y convertidos en una minoría respecto a los turco-anatolios con un nivel cultural y económico tremendamente más bajo que el suyo.

Icono ortodoxo recuperado por las autoridades chipriotas del expolio turco
Es necesario recordar que Chipre entró en la Unión Europea en 2004. Ese mismo año se produjo un referéndum para la posible reunificación de la isla en las condiciones actuales por parte de la ONU, la respuesta greco-chipriota fue clara el 76% votó en contra al considerar que el plan de la ONU perpetuaba el status quo de la ocupación turca y deba ventajas increíbles a esa minoría en el futuro y supuesto gobierno “unificado” de la isla. Durante el referéndum y posteriormente, los greco-chipriotas han insistido en que la opción que ellos siguen apoyando es la enosis (unión con Grecia). Por este motivo la parte de Chipre que está integrada en la UE es la greco-chipriota, aunque como oficialmente la UE no reconoce la RTNC, la parta norte es territorio comunitario que no está bajo jurisdicción europea al permanecer ocupado militarmente por Turquía. Es decir que una la UE tiene parte de su territorio bajo ocupación militar turca, lo que debería ser condición suficiente para detener cualquier diálogo mutuo hasta que dicha ocupación finalice. Esto suponiendo que la UE tenga la voluntad política y diplomática real de defender a los pueblos europeos, algo que los hechos nos demuestran permanentemente que no es así.

Pope de Karinia en el exilio
Chipre y Grecia han sido desde siempre la vanguardia de la civilización europea ante el avance oriental y musulmán. Hoy lo siguen siendo, vimos con la valentía y la determinación que los greco-chipriotas luchan día a día por recuperar un patrimonio y un territorio que es suyo. Dedicamos este artículo a todos ellos y en espacial a las autoridades civiles y religiosas que tan amablemente nos acompañaron durante nuestra visita. Ellos nos pidieron que diéramos a conocer la situación, este artículo es parte de la promesa que les hicimos.
 
Enric Ravello
Secretario de relaciones nacionales e internacionales de Plataforma per Catalunya


La Syrie, au cœur de la Guerre tiède

 

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La Syrie, au cœur de la Guerre tiède ? D’une désinformation médiatique à une intervention programmée

par Jean Géronimo

Sans-titre-3-150x150.jpgSpécialiste des questions économiques et stratégiques russes - Docteur des Universités, vice-major de promotion de licence et maîtrise de sciences économiques, UPMF Grenoble. Lauréat de la Fondation Robert Schuman. Ancien allocataire de recherche de la Région Rhône-Alpes

Jean.Geronimo@upmf-grenoble.fr

« Il faut empêcher de réitérer le scénario libyen en Syrie »

  Vladimir Poutine, 27/02/2012 (1)

 

La crise syrienne est, aujourd’hui, arrivée à un point critique. Une guerre fratricide massacrant, pour partie, des innocents, est en cours.

Dans ses grandes lignes, cette guerre est médiatisée par les intérêts politico-économiques des grandes puissances. Mais, très tôt, elle a été polluée par les nouvelles idéologies religieuses et nationalistes, surfant sur les maladresses occidentales et la soif de libertés de peuples en perdition – au prix de dérives politiques incontrôlables et, sans doute, irréversibles.

 

A l’origine, cette quête identitaire a été précipitée par la « fin des idéologies » (D. Bell)  issue de la disparition de l’URSS, en décembre 1991, qui a favorisé le retour du religieux comme idéologie alternative et, au moins, réactivé son rôle politique et identitaire. Dans le même temps, la disparition du verrou idéologique de la Guerre froide a suscité l’émergence de micro-conflits périphériques désormais porteurs, sur l’Echiquier arabe, d’aspirations révolutionnaires. En ce sens, la délégitimation de l’idéologie communiste aurait agi comme facteur catalyseur d’une instabilité systémique à l’échelle du monde et dont la crise syrienne ne serait, au final, qu’un sous-produit – une forme d’effet émergent.

La (prévisible) réaction d’auto-défense du régime syrien face à la terrible violence « révolutionnaire » attisée de l’extérieur a débouché, aujourd’hui, sur une inquiétante guerre civile – imputée par les médias occidentaux, de manière (trop) systématique et erronée, au seul président Bachar El-Assad. Pourtant, l’opposition armée anti-Assad est responsable de davantage de tueries étrangement passées sous silence et qui, en d’autres lieux, auraient pu être qualifiées de « crimes contre l’humanité », pour reprendre une expression trop souvent manipulée par la gouvernance néo-libérale sous leadership américain, dans l’optique de justifier ses actions répressives.

Avec une certaine légitimité, on peut donc s’interroger sur l’existence d’une pensée unique, structurellement favorable aux « rebelles », et verrouillant l’information sur le déroulement de la « révolution » syrienne – sous l’impulsion de l’Organisation syrienne des droits de l’homme (OSDH), étrange ONG politiquement (très) orientée et semblant avoir un monopole « légitime » sur l’information. Régulièrement émise par l’OSDH, l’information sur la nature et l’ampleur des massacres censés perpétrés par le régime Assad est, en effet, admise comme vérité scientifique par le consensus médiatique – formatant, par ce biais, une opinion publique internationale hostile au régime syrien. Toutefois, ce dernier reste – heureusement – soutenu par l’axe sino-russe.

L’issue, tant désirée par les promoteurs du Printemps arabe, ne semble désormais plus faire de doutes. Mais pour Moscou, c’est plutôt un Hiver islamiste, réchauffé par le doux soleil de la Charia, qui se prépare – avec, naturellement, la complicité américaine.

Comment et pourquoi en est-on arrivé là ? Et qui, surtout, y avait intérêt ?

Vers un point de non retour, pour réitérer le « scénario libyen »

De manière indéniable, ce point de non retour a été favorisé de l’étranger dans le cadre d’une stratégie de communication politiquement orientée et unilatéralement focalisée contre la « dictature » Assad, désigné par le consensus médiatique comme l’ennemi à abattre.

Très clairement, dès l’origine, la rébellion anti-Assad a été financée et armée par des membres clés (riches en pétrodollars) de la Ligue arabe, principalement l’Arabie saoudite et le Qatar. Très vite, elle a été encouragée par l’administration américaine et ses alliés traditionnels, avides de s’insérer dans la vague révolutionnaire portée par l’histoire et, surtout, de profiter des opportunités politiques – dont celles de contenir les ambitions russes, voire chinoises, dans une région stratégique sur les plans politique et énergétique. Ainsi, dans un premier temps, la Turquie a discrètement servi d’appui logistique pour les « rebelles » et, dans un second temps, elle s’est ouvertement montrée désireuse de passer à l’offensive, c'est-à-dire à l’action armée sur le territoire syrien. Au nom de la liberté des peuples et, naturellement, de leur droit à disposer d’eux-mêmes – la couleuvre est, tout de même, dure à avaler. D’autant plus, si on est russe.

Les infiltrations aux frontières ont été nombreuses au début de la « révolution ». Comme par hasard, tous les points de conflits sont anormalement et systématiquement proches de la frontière syrienne – curieux, tout de même, que nos médias ne se soient pas interrogés sur cette troublante coïncidence. Cette situation est illustrée, depuis fin juillet, par la volonté des « rebelles » de contrôler certains postes-frontières dans le but de faciliter les « passages », autrement dit, les actions militaires et les attentats contre les positions syriennes.

Une telle configuration confirme l’hypothèse d’une aide extérieure, très tôt invoquée par le président syrien Bachar El-Assad et qui, sans surprise, n’a jamais été prise au sérieux par les médias occidentaux, perdus dans le ciel bleu du monde de l’ignorance apprise, alimentée par la seule information diffusée par l’OSDH. Loin d’être spontanée, cette « révolution » est donc orientée et, en ce sens, elle apparaît davantage comme une « évolution », impulsée de l’extérieur et sur laquelle surfent les stratégies manipulatrices de puissances ambitieuses. Mais, dans la mesure où il s’agit d’un retour en arrière sur le plan politico-social – surtout en ce qui concerne le statut de la femme et des libertés individuelles (dont politiques) –, je parlerai plutôt « d’involution ».

Tout a été fait, dans le cadre d’un scénario programmé, pour provoquer l’armée régulière et les structures de sécurité de l’Etat syrien de manière à les contraindre à une réaction violente et créer, par ce biais, une instabilité croissante auto-cumulative, à terme, potentiellement explosive. En outre, ce chaos a été aggravé par l’émergence de milices privées, parfois de nature religieuse, et échappant à tout contrôle gouvernemental. Au final, il s’agit d’atteindre un seuil critique (déclencheur de « l’explosion »), synonyme de guerre civile – quitte à sacrifier quelques civils, quotidiennement imputés par l’OSDH au « sanguinaire » président Assad ou, alternativement, à d’inévitables « dégâts collatéraux ». Et quitte, aussi, à générer une situation anarchique caractérisée par la délégitimation des lois et structures étatiques. Une catastrophe programmée.

Aujourd’hui, l’Etat syrien, dont l’autorité est considérablement érodée, n’a même plus – au sens de Max Weber – le monopole de la « violence légitime » sur son territoire, traditionnellement considéré comme le socle de la stabilité d’un Etat-souverain. Désormais, le terreau est donc propice à la répétition du « scénario libyen », selon l’expression usitée de V. Poutine.

Sous prétexte de défendre les intérêts légitimes du peuple syrien, l’insidieuse politique arabo-occidentale a, objectivement et, sans doute, consciemment, contribué à ce chaos.

Complicité arabo-occidentale, au nom d’un troublant messianisme moral

Les « Amis de la Syrie » ont, très tôt, instrumentalisé la crise syrienne pour défendre leurs propres intérêts qui font du départ d’El-Assad, la pierre angulaire de leur stratégie.

Les intérêts de cette coalition hétéroclite se rejoignent, sur certains points précis – dont celui de placer un pouvoir « ami », apte à gérer l’après-Assad –, et, à la base, ils sont structurellement opposés à ceux de l’axe sino-russe. Redoutant une déstabilisation régionale, l’axe sino-russe prône en effet une solution politique négociée qui n’implique pas, nécessairement, l’élimination du président syrien. Nuance politique essentielle, expliquant la division, donc l’impuissance du Conseil de sécurité de l’ONU à travers le blocage systématique de ses résolutions par les responsables russes et chinois – mais c’est aussi, cela, la démocratie. Sur ce point, on peut d’ailleurs s’interroger sur la viabilité d’une résolution prônant une « transition démocratique » en Syrie et soutenue par l’étrange tryptique Arabie Saoudite-Qatar-Turquie. Avec le blanc-seing occidental…

Des intérêts économiques (contrôle de l’énergie), politiques (lutte d’influence) et stratégiques (inflexion des rapports de force) sont les enjeux sous-jacents au conflit syrien exacerbé, en définitive, par la montée brutale d’Al Qaïda (reconnue par Washington) et par l’opposition religieuse sunnites/chiites. Dans son essence, cette opposition forme une ligne de fracture confessionnelle auto-destructrice et à jamais ré-ouverte, parce que politiquement non neutre – et facilement manipulable, donc utile aux régimes hostiles au maintien du président Assad.

Le leitmotiv humanitaire, a été à la fois le fil conducteur et l’habillage légitime de l’ingérence croissante de la coalition arabo-occidentale dans le processus politique interne de la Syrie. Ce devoir d’ingérence progressivement institué devrait, à terme, justifier une intervention (sous une forme à définir) dans l’optique de renverser le régime Assad et, s’il le faut, sans la légitimité onusienne – pour contourner le barrage sino-russe. Désormais, avec le soutien actif des services secrets allemands, américains, britanniques et français, tous les efforts de la coalition arabo-occidentale sont concentrés vers cet ultime objectif. Pour l’heure, l’idée d’imposer une zone d’exclusion aérienne (définie comme zone de sécurité) pour créer un « couloir humanitaire » fait, peu à peu, son chemin. Le problème est qu’un tel « couloir » a, déjà, fait l’objet d’une instrumentalisation politico-militaire en d’autres lieux et d’autres temps. Pour Moscou, une telle leçon ne s’oublie pas et, surtout, ne doit plus se répéter.

L’essentiel est d’arriver, après la réélection d’Obama, au point de basculement de la crise (« seuil critique ») provoquant l’intervention finale et, en cette fin d’été, nous y sommes proches. Cette intervention militaire est rejetée par russes et chinois, psychologiquement marqués par  les tragédies serbe (1999), irakienne (2003) et libyenne (2012), où la manipulation des règles internationales et des mécanismes onusiens a été flagrante, mettant en cause, selon eux, la légitimité de la gouvernance mondiale. De façon troublante, cette transgression des règles est réalisée au nom de valeurs morales supérieures, selon la tradition post-guerre froide inaugurée par la vertueuse Amérique, investie de sa « destinée manifeste » et de son libéralisme triomphant – un discours, certes, bien rôdé.

Un sous-produit de cette inconscience politique occidentale a été la propagation du syndrome révolutionnaire, via un Islam radical moralisateur, au-delà de l’Echiquier arabe : dans le monde post-soviétique et sur le continent africain, au Mali pour commencer, avec l’extension de la Charia. Avec, à la clé, d’irréversibles dégâts collatéraux.

Pour l’axe sino-russe, il y a une ligne rouge à ne pas franchir dans cette partie stratégique dominée par les grandes puissances – notamment, en Syrie. Mais les dés sont, déjà, pipés.

Poursuite du reflux russe sur l’Echiquier arabe, sous bienveillance américaine

Dans l’hypothèse d’un renversement du président Assad, la Russie (avec la Chine et l’Iran)  serait la principale perdante.

Pour rappel, la Syrie est un des principaux alliés de l’Iran dans la région et la disparition d’Assad isolerait davantage Téhéran – ce que souhaitent, pour diverses raisons, de nombreux Etats arabes et occidentaux. D’autre part, le renversement d’Assad risquerait de déstabiliser le Liban et au moins, d’y redéfinir le jeu politique interne avec, notamment, l’affaiblissement du Hezbollah libanais. L’évolution syrienne est donc politiquement non neutre pour l’Etat israélien et sa stratégie au Moyen-Orient et, en ce sens, pour le destin géopolitique de la région.

A cela, il convient de préciser que l’Azerbaïdjan, ex-république de l’URSS très sensible désormais – comme d’autres Etats de la périphérie post-soviétique – aux sirènes américaines (et à leurs dollars), rêve de créer un « Grand Azerbaïdjan » étendu à une partie de l’actuelle Iran. Dans cette optique, l’affaiblissement de l’axe Iran-Syrie serait une bonne chose pour ses prétentions territoriales. Moscou redoute un tel scénario, d’autant plus qu’il nuirait dangereusement aux intérêts de son fidèle allié et partenaire stratégique, l’Arménie – dont l’existence (et celle de ses bases militaires) serait, dés lors, menacée.

En outre, par l’intermédiaire de son ministre des affaires extérieures, Ahmet Davutoğlu, la Turquie – véritable base arrière et levier de l’influence américaine en Eurasie – revendique, de manière troublante, le rôle de « pionnier du changement démocratique » au Moyen-Orient. En fait, la défense de ses intérêts nationaux – qui intègrent le « problème » kurde – a incité la Turquie à s’ingérer dans la crise syrienne. Et, surtout,  elle l’oblige à maintenir une veille stratégique dans le Nord de la Syrie convoité, selon Ankara, par les « extrémistes kurdes ». Enfin, il faut rappeler que la Turquie rêve toujours d’un Empire ottoman étendu à l’Asie centrale ex-soviétique. Tout est donc en place, pour la partie finale.

Tendanciellement, on assisterait donc à la poursuite du roll back (reflux) de la puissance russe, conduite par l’administration américaine depuis la fin de la Guerre froide et qui vise, aujourd’hui, à affaiblir ses alliances traditionnelles – donc, son pouvoir potentiel sur longue période – en zones arabe et post-soviétique. Car, qu’on le veuille ou non, l’administration Obama est objectivement tentée de manipuler les « révolutions » pour, à terme, étendre sa zone d’influence et sécuriser, par ce biais, les principales sources d’approvisionnement et routes énergétiques – d’où l’intérêt de « stabiliser », c'est-à-dire de contrôler politiquement la Syrie, le Liban et l’Iran, véritables nœuds stratégiques de la région. Une telle extension se réaliserait au détriment des dernières positions russes, héroïquement tenues sur l’Echiquier  moyen-oriental et, en particulier, en Syrie, face à la pression médiatique et politico-militaire de la coalition arabo-occidentale – mais, pour combien de temps encore ?

Dans cette optique et de manière officielle, l’administration américaine vient de reconnaître la nécessité de renforcer significativement son soutien au « processus révolutionnaire et démocratique » en œuvre en Syrie. Dans ses grandes lignes, cette action s’inscrit dans le prolongement de sa récente ingérence – via de douteuses ONG – dans le processus électoral russe et, de façon plus générale, dans le cheminement politique incertain de la périphérie post-soviétique en vue d’y imposer la « démocratie ». Naturellement, selon les normes occidentales.

Ce faisant, Washington officialiserait une stratégie qui, en réalité, a commencé bien plus tôt. Tendanciellement, cette stratégie s’appuie sur la démocratie comme nouvelle idéologie implicite et globalisante, vecteur de sa domination politique dans le monde. Au regard d’une lecture plus structurelle de la crise syrienne, médiatisée par les intérêts des puissances majeures, cette attitude américaine n’est pas une surprise et, au contraire, semble cohérente avec une ligne de long terme axée sur la défense de son leadership régional – contre les intérêts russes.

L’hyper-puissance américaine avance ses pions, inéluctablement.

L’Arabie saoudite, nouveau « pivot géopolitique » de l’hyper-puissance ?

La poursuite du « Printemps islamiste », à dominante sunnite, renforce les positions de l’Arabie saoudite dans la région et donc, de manière indirecte, les prérogatives de l’axe USA-OTAN.

Sur ce point, on remarquera que les monarchies du Golfe, qui sont (très) loin d’être plus démocratiques que la Libye et la Syrie ont été, jusque là, étrangement épargnées par la vague révolutionnaire. Avec une certaine légitimité, on peut donc se demander pourquoi ? Et pourquoi passe-t-on sous silence le sort des 80 000 chrétiens expulsés de leurs foyers par les « révolutionnaires » syriens dans la province d’Homs, en mars 2012 ? Enfin, pourquoi ne parle-t-on pas des persécutions quotidiennes de la population chiite (majoritaire à 70%) au Bahreïn, associée à un verrouillage total de l’opposition (et de l’expression) politique ? Cette répression est « supervisée » par l’armée saoudienne encline, à la moindre occasion, à faire intervenir ses chars – sorte d’application arabe de la doctrine Brejnev de « souveraineté limitée » – et cela, quels qu’en soient les coûts humains. Terrible et révélateur silence médiatique.

La réaction occidentale a été tout autre lorsque la Russie est – justement – intervenue avec ses chars en Géorgie en 2008, pour protéger ses ressortissants et ses soldats d’un massacre annoncé, après l’inquiétante initiative du président Saakachvili. Comment expliquer cette lecture des Droits de l’homme (et des peuples) à géométrie variable ? Et pourquoi les chars russes seraient-ils plus « coupables » que les chars arabes – ou américains, en d’autres circonstances, lors des « croisades » morales punitives ? Pour Moscou, une telle situation confirme le maintien d’un esprit de Guerre froide visant à la marginaliser, de manière définitive, sur la scène internationale. Un « deux poids, deux mesures » politiquement insupportable, et presque blessant.

  La principale conséquence de l’extension de la domination sunnite au Moyen-Orient gagné par la contagion « révolutionnaire » est que, par l’intermédiaire de l’Arabie saoudite, comme levier d’ingérence privilégié, l’administration américaine renforce son  contrôle de la région. Parce que, par définition, il sera dorénavant plus facile pour Washington d’actionner un seul levier pour dicter sa politique régionale et défendre, ainsi, ses intérêts de grande puissance. Dans ce schéma, l’Arabie saoudite devient une pièce maitresse  (« pivot », au sens de Brzezinski) des Etats-Unis sur l’Echiquier arabe permettant, désormais, à l’hyper-puissance d’agir sur les événements et d’orienter le jeu, sans véritable opposition. Une contrepartie possible serait alors, pour Washington, de tenir compte des intérêts politiques de l’Arabie saoudite dans les régions musulmanes de l’ex-espace soviétique, âprement convoitées dans le cadre de son face-à-face avec la Russie. En ce sens, la crise syrienne cache un enjeu politique plus global, fondamentalement géostratégique – et, de manière indiscutable, lié au déroulement de la Guerre tiède.

Cette tendance au renforcement de la gouvernance unipolaire, légitimée par l’éclatante victoire américaine de la Guerre froide, est officiellement et régulièrement dénoncée par Vladimir Poutine, depuis son fameux discours de Munich de 2007 sur la sécurité dans le monde. Les faits, comme les hommes, sont – parfois – têtus.

Paradoxalement, les involutions arabes, sous bienveillance américaine, ne feront qu’accélérer cette tendance (2).

Et, maintenant, que faire ?

 

Jean Géronimo

Grenoble, le 30 août 2012

 

(1) http://fr.rian.ru/discussion/20120227/193517992.html : « La Russie et l’évolution du monde », article de V. Poutine sur la politique étrangère russe, 27/02/2012 – RIA Novosti.

(2) Les crises arabes et leurs implications géopolitiques pour la Russie, sont traitées dans le post-scriptum (50 pages) inséré dans la nouvelle édition de mon livre : « La Pensée stratégique russe Guerre tiède sur l’Échiquier eurasien : les révolutions arabes, et après ? ». Préface de Jacques SAPIR, mars 2012, éd. SIGEST, code ISBN  2917329378 en vente : Amazon, Fnac, Decitre (15 euros).

Note de l'Editeur  : Diffusion autorisée avec texte complet et renvois , mention de l'auteur .

 

The Waning of American Power in the Middle East

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Who Will Tell the President?

The Waning of American Power in the Middle East

by PATRICK COCKBURN
 
 
Are the days of American predominance in the Middle East coming to an end or is US influence simply taking a new shape? How far is Washington, after refusing to try to keep Hosni Mubarak in power in Egypt, facing the same situation as the Soviet Union in 1989, when the police states it had sustained in Eastern Europe were allowed to collapse?

The US is obviously weaker than it was between 1979, when the then Egyptian president, Anwar Sadat, signed the Camp David agreement and allied Egypt with the US, and 2004/05, when it became obvious to the outside world that the Iraq war was a disaster for America. At the time, General William Odom, a former head of the National Security Agency, the biggest US intelligence agency, rightly called it “the greatest strategic disaster in American history”.

Since then, the verdict of the Iraq war has been confirmed in Afghanistan, where another vastly expensive US expeditionary force has failed to crush an insurgency. In the last few weeks alone, Taliban fighters have succeeded in storming Camp Bastion in Helmand province and destroying $200m worth of aircraft. So many American and allied soldiers have now been shot by Afghan soldiers and police that US advisers are under orders to wear full body armour when having tea with their local allies.

The Arab Spring uprisings posed a new threat to the US, but also opened up new options. Support for Mubarak was decisively withdrawn at an early stage, to the dismay of Saudi Arabia and Israel. But the Muslim Brotherhood had long been considering how it could reach an accommodation with the US that would safeguard it against military coups, and enable it to chop back the power of the Egyptian security forces. This was very much the successful strategy of the Turkish Prime Minister Recep Tayyip Erdogan and his Justice and Development (AKP) party, explaining why it was prepared to join the US in invading Iraq in 2003 and why it has become the chief instrument of American policy towards Syria in the past year.

This alliance with Islamic but democratic and pro-capitalist parties in Egypt and Turkey is obviously in the interests of the US and the Atlantic powers. But their support for democratic change in North Africa and West Asia is determined by self-interest. It does not, for instance, extend to Bahrain where the Sunni al-Khalifa monarchy has been busily locking up its Shia opponents and retreating from promises of meaningful reform. But new allies must at some point mean fresh policies. In sharp contrast to the Mubarak regime, a new government in Egypt is unlikely to support covertly Israeli military action such as the bombardment of Lebanon in 2006 and of Gaza in 2008.

A problem for the White House is that American voters have not taken on board the extent to which US influence has been reduced. For all the rhetoric about the Iraq war being a strategic disaster, the American political and military elite has also failed to appreciate the extent and consequences of failure. It is extraordinary to discover, according to recent revelations, that as late as 2010 Vice-President Joe Biden was under the impression that he could blithely decide who would be president of Iraq. Biden’s grip on Iraqi geography appears to be as shaky as his understanding of its politics. On one occasion in Baghdad, he lauded all the good things the US had done for Baku, the capital of Azerbaijan, having apparently mistaken it for Basra in southern Iraq.

The killing of the US ambassador to Libya, Christopher Stevens, and the burning of the US Consulate in Benghazi could have been a worse political disaster for President Barack Obama than it turned out to be. It highlighted that the rebels who overthrew Muammar Gaddafi were not quite as they had been presented by the US government and media during the war past year. The US State Department appears to have had an unhealthy belief in its own propaganda, not seeing that its consulate in Benghazi was in one of the most dangerous places in the world. The assault did not come out of a blue sky. Fighters had shot at the convoy of the British ambassador, Sir Dominic Asquith, in Benghazi a few weeks earlier. In July last year, the rebels’ own commander, Abdel Fatah Younis, was abducted and murdered by men nominally under his command in revenge for repressive actions he had carried out before he defected from Gaddafi’s forces.

Diplomats and soldiers are often curiously blind to dangers facing them. It may be that both live in very inward-looking communities and somehow cannot internalise how somebody outside may think and act. I remember in 1983 in Lebanon talking to the highly intelligent US marine commander whose soldiers were based near Beirut airport. In theoretical terms, he could see very clearly that American forces had some very dangerous enemies and were vulnerable to attack, but he unaccountably failed to take effective measures that might have stopped a truck packed with explosives killing 241 marines when their base was destroyed. Likewise, the Green Zone in Baghdad from 2003 on had elaborate fortifications, but its outer defences were manned at one moment by former Peruvian policemen from Lima and, at another, by ex-soldiers from Uganda hired on the cheap by a security company.

A more effective political opponent than Mitt Romney could surely have inflicted damage on Obama over the Benghazi debacle. A measure of Romney’s ineptitude is that he failed to do so and, instead of scoring points, he came across as opportunistic and ignorant. After all, Obama has been conducting a policy of retreat in Iraq, Afghanistan and Egypt without quite coming clean about it. Romney’s denunciation of Obama for “apologising” for America was shallow demagoguery, though rhetoric on the American right should not be dismissed too casually. George W Bush’s supporters used to spout similar nonsense, but only after 9/11 did it become appallingly clear that they believed a lot of what they were saying.

Supposing Obama is re-elected in November, will the US stance change at all? The endlessly repeated Israeli threats to launch air strikes on Iran have always struck me as being most likely highly successful bluff, since threats alone have served Israeli purposes so well, isolating Iran economically and diverting attention from the Palestinians.

More immediately, will the US move after the election, possibly acting through Turkey, to take military action to displace Bashar al-Assad in Syria? There is something deceptive about David Cameron implying that Russia and China are responsible for the slaughter of Syrian children.

A central problem in getting rid of President Assad and the Baathist regime is that the war against him is not just for and against autocracy. If this were the only issue, how come that the Sunni absolute monarchies of the Arabian peninsula are Assad’s fiercest enemies? The struggle is also between Shia and Sunni and between Iran and its enemies, guaranteeing that Assad has support in Tehran, Baghdad and Beirut. The quickest way to end the war is to reassure Assad’s allies at home and abroad that they are not next in line for elimination.

PATRICK COCKBURN is the author of “Muqtada: Muqtada Al-Sadr, the Shia Revival, and the Struggle for Iraq

samedi, 13 octobre 2012

Iran, Syria and the Balance of Power in the Middle East

The "Resistance Bloc" is Fighting for Its Life

Iran, Syria and the Balance of Power in the Middle East

by PATRICK COCKBURN
 
 
Turkish artillery is firing across the border into Syria. Explosions have torn apart buildings in Aleppo, Syria’s largest city, making their floors collapse on top of each other so they look like giant concrete sandwiches. The country resembles Lebanon during its civil war, the victim of unbearable and ever-escalating violence but with no clear victor likely to emerge.

In Iran, Syria’s most important ally in the region, sanctions on oil exports and central bank transactions are paralysing the economy. The bazaar in Tehran closed after violent protests at a 40 per cent fall in the value of the currency, the rial, over the past week. Demonstrators gathered outside the central bank after finding they could no longer get dollars from their accounts. Popular anger is at its highest level since the alleged fixing of Iran’s presidential election of 2009.

Will these events lead to a change in the balance of power at the heart of the region? Iran and Syria were the leaders for the past 10 years of the so-called “resistance bloc”, the grouping that supported the Palestinians and opposed the US-led combination that brought together Arab dictatorships and Israel in a tacit alliance. This anti-American bulwark was at the height of its influence between 2006 and 2010 after the failed US invasion of Iraq and Israel’s bombardment of Lebanon and Gaza.

At first, the Arab Spring seemed to favour the “resistance bloc”. Without Syria and Iran having to lift a finger, President Hosni Mubarak and President Zine el-Abidine Ben Ali were driven from power in Egypt and Tunisia. And Bashar al-Assad seemed confident, in the first months of 2011, that his opposition to the US, Arab autocracies and Israel would protect him against the revolutionary wave.

Eighteen months later, it is the “resistance bloc” that is fighting for its life. Turkey is becoming ever more menacing to Syria and impatient of American restraint. After the US presidential election, Washington could well decide that it is in its interests to go along with Turkish urgings and give more military support to the Syrian opposition. The US might calculate that a prolonged and indecisive civil war in Syria, during which central government authority collapses, gives too many chances to al-Qa’ida or even Iran. It has had a recent example of how a political vacuum can produce nasty surprises when the US ambassador to Libya, Christopher Stevens, was killed in Benghazi last month.

An ideal outcome from the American point of view is to seek to organise a military coup against the Syrian government in Damascus. Zilmay Khalilzad, a former US ambassador to Iraq and Afghanistan, wrote recently in Foreign Policy magazine that the US should take steps “empowering the moderates in the opposition, shifting the balance of power through arms and other lethal assistance, encouraging a coup leading to a power-sharing arrangement, and accommodating Russia in exchange for its co-operation”.

By becoming the opposition’s main weapons’ suppliers, the US could gain influence over the rebel leadership, encourage moderation and a willingness to share power. Mr Khalilzad envisages that these moves will prepare the ground for a peace conference similar to that held at Taif in Saudi Arabia in 1989 that ended Lebanon’s 15-year civil war. It is also what the US would have liked to have happened in Iraq after 1991.

More direct military involvement in Syria could be dangerous for the US in that it could be sucked into the conflict, but outsourcing support for the rebels to Saudi Arabia and the Sunni monarchies of the Gulf may be even riskier. Arms and money dispensed by them are most likely to flow to extreme Sunni groups in Syria, as happened when Pakistani military intelligence was the conduit for US military aid to the Afghan Mujahideen in the 1980s.

Instead of a fight to the finish – and that finish would probably be a long way off – a peace conference with all the players may be the only way to bring an end to the Syrian war. But it is also probably a long way off, because hatred and fear is too deep and neither side is convinced it cannot win. The Kofi Annan plan got nowhere earlier this year because the government and rebels would only implement those parts of it that favoured their own side.

How does Iran view its endangered regional position in the Middle East? Iran’s policy is usually a mixture of practical caution and verbal crudity – the latter often represented to the outside world by President Mahmoud Ahmadinejad. But in its struggles with the Americans in Iraq after 2003, Iran was realistic and seldom overplayed its hand. It may be under pressure from sanctions now, but its situation is nothing like as serious as it was during the Iran-Iraq war of 1980 to 1988. More recently, Iranians joked that only divine intervention could explain why the US had disposed of its two main enemies, the Taliban and Saddam, in wars that did more good to Iran than the US.

But the success of sanctions on oil exports and Iranian central bank operations seems to have caught Tehran by surprise. Oil revenues have fallen and the cost of food, rent and transport is up. In recent years, Iranians have become big foreign travellers, but last week were stopped withdrawing rials from their dollar accounts. No wonder they’re angry.

But enemies of the Iranian regime should not get up their hopes too early. An Iranian journalist in Tehran sympathetic to the opposition said to me last year that “the problem is that the picture of what is happening in Iran these days comes largely from exiled Iranians and is often a product of wishful thinking”. The Iranian regime is far more strongly rooted than the Arab regimes overthrown or battling for survival. The Iranian-led bloc in the region may be weaker, but it has not disintegrated.

PATRICK COCKBURN is the author of “Muqtada: Muqtada Al-Sadr, the Shia Revival, and the Struggle for Iraq

Le Rouge , le Vert et le Noir : Serguei Oudaltsov chez les séparatistes islamistes Tatars !

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Le Rouge , le Vert et le Noir : Serguei Oudaltsov chez les séparatistes islamistes Tatars !

http://zebrastationpolaire.over-blog.com/

On connaissait déja  les liens troubles de l'extrême-gauche française avec le fondamentalisme islamique [ lien ] .

Il en est de même en Russie .

La nouvelle date du 12 aout 2012 et elle vient de m'être communiquée  par un correspondant Russe s'intéressant aux problèmatiques ethno-séparatistes .

Le 12 aout 2012 , soit quelques jours après l'attentat contre les chefs religieux musulmans du Tatarstan [ lien vers article ] , le chef du " Front de Gauche " Russe Serguei Oudaltsov s'est rendu à Kazan [ capitale du Tatarstan ] pour y rencontrer les " jeunes " séparatistes islamistes tatars du mouvement " Azatlyk " - indépendance - dont leur chef Naïl  Nabiullin  .[ lien ]

A cette occasion le frondegôchiste  russe a appellé les séparatistes islamistes tatars a faire " front commun " et à mener des actions communes dans les rues et dans les usines : " Il est temps de réunir toutes les forces qui peuvent contribuer à l'affaiblissement du régime de Poutine " .

Selon certaines sources , le leader frondegôchard aurait aussi rencontré des membres de l'organisation terroriste Hizb ut-Tahrir contre laquelle il " n' a pas de préjugés " !

Notons que Naïl Nabulin considére lui qu'il n' a " rien à dire aux fondamentalistes d' Hizb ut-Tahrir "! ...

Le leader du frondegôche  Russe , le rouge Oudaltsov , s'est même proposé de jouer les " casques bleus " entre les islamistes  " verts " tatars et les nationalistes " noirs " Russes pour qu'ils puissent défiler côte à côte lors des " marche des millions "  Car ce n'est pas gagné ! Alors qu'il estimait pouvoir réunir 10 000 à 15 000 manifestants à Kazan pour la " marche des millions " , celle-ci n'a réunie que 50 à 100 personnes le 15 septembre dernier  : Islamistes , séparatistes , frondegôchistes , libéraux , Pussyriotistes ....confondus   ! [ lien ]   et [ lien ]  

On savait déja que Serguei Oudaltsov ne dédaignait pas la compagnie d'un Alexandre Belov-Potkine du DPNI -  ex Mouvement contre l'Immigration Illégale - et des nationalistes Oukraïniens [ lien ] .

On s'étonne de pouvoir encore s'étonner d'apprendre qu'il fréquente des terroristes islamistes et des terroristes séparatistes ! 

La presse et la blogosphère Russe se sont  amusés  de cette union de la carpe et du lapin en parlant de " califat rouge " ou " wahhabisme gauchiste  "!

Russland zwischen Souveränität und Abhängigkeit

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Russland zwischen Souveränität und Abhängigkeit

Fjodor Lukjanow für RIA Novosti

Ex:

 

http://de.rian.ru/opinion/20121005/264601140.html/

 
In dieser Zeit haben Russland und der Rest der Welt einen tiefgreifenden Wandel durchlebt.

Diese Wandlungen lassen sich schwer zusammenfassen, aber eines ist offensichtlich: Seit dem Ende des 20. Jahrhunderts verschwimmen die Grenzen zwischen den Staaten.

Den Regierungen fällt es zunehmend schwerer, die Prozesse um den Zustand ihres Landes unmittelbar zu kontrollieren. Russland ist da keine Ausnahme. In Russland ist dieser Trend sogar besonders deutlich zu sehen.

Russland und der Rest der Welt

Die stetig zunehmende Abhängigkeit von äußeren Faktoren kam nicht überraschend. Das Auseinanderfallen der Sowjetunion begann bereits in den 1960er-Jahren. Damals machte sich das Land wegen der Erschließung neuer Gas- und Ölvorkommen in Sibirien und deren Exports nach Westeuropa von der Konjunktur des internationalen Rohstoffmarktes abhängig. Der Öl- und Gasexport sowie die Einnahmen wuchsen kontinuierlich, aber auch die Situation auf dem Weltmarkt wirkte sich auf die Sowjetunion aus.

Bis in die 1980er-Jahre profitierte das Land vom permanenten Anstieg der Rohstoffpreise. Dann aber begann die Rezession, die für die UdSSR fast zum Verhängnis wurde.

Andererseits ging der Kreml, der seinen Einfluss in Europa stärken wollte, ein politisches Spiel im Rahmen des Helsinki-Prozesses ein. Am Ende erreichte Moskau sein Ziel: Die bestehenden Grenzen wurden anerkannt. Es musste sich jedoch dem kostspieligen Entwicklungsprogramm für die Dritte Welt anschließen, was später eine wichtige Rolle für die Wandlungen spielen sollte, die zum Zerfall der Sowjetunion geführt haben.

Im Grunde hatte die sowjetische Führung selbst die Voraussetzungen für diese Reformen geschaffen: „Frische Luft“ kam endlich durch den Eisernen Vorhang.

Mit den Folgen der Abhängigkeit vom Rohstoffexport und des „Imports“ der Sehnsucht nach Freiheit musste sich Michail Gorbatschow auseinandersetzen. Das Ergebnis ist allen bekannt. Der Einfluss des Westens hat die Erosion der Sowjetunion beschleunigt, aber nicht verursacht. Die Sowjetunion wurde das Opfer der eigenen Unfähigkeit, die Situation in den Griff zu bekommen.

Boris Jelzin kam an die Macht, als Russland sich bereits geöffnet und als Teil der Welt etabliert hatte. Dies geschah jedoch, weil Chaos nach dem Zerfall der Sowjetunion herrschte, und der äußere Einfluss sich in dieser Situation als gegenläufig und widerspruchsvoll erwies. 

Aber selbst damals, als der russische Staat den Anschein erweckte, nahezu handlungsunfähig zu sein, behielt er die Kontrolle über seine wichtigsten Funktionen und Prozesse innerhalb des Landes.

Vernetzte Welt

Um die Jahrhundertwende wurden die Staatsgrenzen noch durchlässiger. In seiner ersten Amtszeit als Präsident ging es Putin vor allem darum, Russland aus der Misere zu holen, während die Situation in der Welt stabil zu sein schien. Jahre später sollte sich jedoch alles ändern. 

Russland erstarkte, wenngleich die Methoden nicht unumstritten waren. In der Welt begannen dagegen destruktive Prozesse, die sich aber auch auf die Lage in Russland auswirkten.

Die Globalisierung, die ursprünglich in der Wirtschaft begann, weitete sich allmählich auf andere Gebiete aus. Einzelne Staaten verloren die Möglichkeit, sich gegen äußere Einflüsse abzusichern.

Innere Faktoren der Instabilität verschmelzen sofort mit den äußeren, mit der Reaktion der Großmächte bzw. mit deren Interessen, mit der Einflusskraft der ideologischen Dogmen usw.

Verantwortungsvolle Staatsoberhäupter müssen angesichts der weltweiten Turbulenzen einen Mittelweg zwischen dem eigenen Konservatismus und der gesellschaftspolitischen Entwicklung im eigenen Land finden. Übertreibungen könnten dazu führen, dass sie die Kontrolle verlieren.

Die Politiker blicken in eine ungewisse Zukunft und müssen deshalb in der Lage sein, wenigstens kurzfristige Entwicklungen zu erkennen.

Der hippokratische Grundsatz „Primum non nocere“ scheint der einzig vernünftige Weg zu sein. Jegliche Aktivitäten, harte Maßnahmen könnten die Welt ins Wanken bringen. Die Politiker müssen heute vor allem in der Lage sein, schnell auf  Ereignisse zu reagieren.

Selbstzerstörerende Welt

Putin ist in seiner dritten Präsidentenamtszeit ein erfahrener Politiker, der die Perspektiven der Welt eher skeptisch sieht.

Früher hatte Putin die Unfähigkeit bzw. Weigerung des Westens kritisiert, Russland als gleichberechtigten Partner zu akzeptieren. Zudem warf er dem Westen vor, Russlands Interessen verletzen zu wollen.

Mittlerweile rätselt er darüber, warum der Westen sich selbst zerstört und die ohnehin ernsthaften Probleme noch mehr zuspitzt. 

Die Ereignisse in der Welt, der Mangel an Vernunft lassen ihn offenbar an der Zweckmäßigkeit und Möglichkeit der eigenen Schritte gegenüber dem Westen zweifeln. Sein Credo ist: Auf innere oder äußere Impulse reagieren!

Wenn man genau weiß, wie eine Herausforderung aussieht und woher sie kommt, sind Antworten leichter zu finden. Wichtig sind nicht konkrete Verhaltensstrategien, sondern das eigene Potenzial und die Anzahl der Instrumente, die zum richtigen Zeitpunkt angewendet werden müssen.

Souveränität über alles

Ein wichtiges Thema für Putin ist die Unantastbarkeit der Souveränität Russlands. Dieses Denken kennzeichnet seine Vorgehensweise. Er ist überzeugt, dass Souveränität die letzte Stütze eines mehr oder weniger soliden Systems ist. Ohne Souveränität geht der letzte Faktor verloren, der das wachsende Chaos strukturieren kann.

Das seit dem 18. Jahrhundert existierende Westfälische Staatensystem bestimmte die Kooperationsprinzipien, die manches Mal hart, dafür aber klar und verständlich waren. Dieses Modell stütze sich auf souveräne Staaten, die als Struktureinheiten dienten. Wenn diese Elemente plötzlich verschwinden, stellt sich die Frage, worauf sich diese Konstruktion überhaupt stützen könnte. Denn eine konzeptuelle Alternative für Souveränität gibt es nicht.

In letzter Zeit redet Putin gerne von der „Soft Power“ – der russischen und anti-russischen.

Die jüngsten umstrittenen russischen Gesetzesänderungen sind  nachvollziehbar: Russland muss sich gegen den äußeren Einfluss zur Wehr setzen. Putin sieht sich offenbar von den traurigen Erfahrungen der Sowjetunion gewarnt: Damals konnte der Staat den attraktiven Ideen und Argumenten von außerhalb nicht widerstehen und fiel letztendlich auseinander.

Russlands Abhängigkeit von der internationalen Marktkonjunktur ist nach wie vor ein Problem. Ideologische und intellektuelle Einflüsse von außerhalb abzuwehren ist die eine Sache. Eine andere Sache ist aber, dass Putin jetzt eine eigene Idee vorschlagen muss.

Dazu ist Russland jedoch noch nicht bereit. Es entsteht aber der Eindruck, dass ein solcher Versuch in absehbarer Zeit unternommen wird. Wie dies in der unberechenbaren Welt funktionieren wird, steht aber in den Sternen.


Zum Verfasser: Fjodor Lukjanow ist der Chefredakteur der Zeitschrift "Russia in Global Affairs"

Die Meinung des Verfassers muss nicht mit der von RIA Novosti übereinstimmen.

 
 
 

vendredi, 12 octobre 2012

Ukraine : champ de bataille du Soft Power

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Ukraine : champ de bataille du Soft Power

par Jérôme COUFFY
 

L’Ukraine, ne nous est connue que pour ses bagarres au Parlement. En réalité, elles ne sont que l’expression d’une fragilité historique méconnue, pourtant toujours très actuelle. Comme le rapporte François de JABRUN dans son article « Les incertitudes de l’identité ukrainienne », l’Ukraine n’est devenue une réalité politique que très tardivement, lors de son indépendance en 1992, si l’on excepte une longue période de vassalisation sous le régime soviétique du XXème siècle.

Le contexte

L’Ukraine est donc un Etat Nation en devenir où vivent près de 50 millions d’ukrainiens. Mais à y regarder de près, c’est une mosaïque de plus de 20  groupes ethniques dominée par les Ukrainophones à l’ouest et les russophones à l’est. Sur ce florilège d’identités potentielles, la langue, berceau de la culture et source d’échanges, y est érigée en appartenance et en barrières. Au centre de ces difficultés, l’identité ukrainienne peine à s’affirmer. Or, on le sait, une faiblesse dans une bataille est une cible. Certains l’ont bien compris car, si l’Ukraine est isolée dans ses réformes politiques, son économie est prometteuse pour beaucoup. En effet, avec près de 5% de croissance en 2011, l’Ukraine vise une indépendance économique et est, de fait, en recherche de coopérations et de financements tout azimut. Tel est le terreau du champ où des Etats en concurrence se livrent bataille avec pour arme de prédilection l’influence.

Le 23 avril 2010, le ministre ukrainien de l’éducation et des sciences,  Dmytro Tabachnyk, signa un décret qui autorisa toutes les universités, d’une part, à accepter des étudiants étrangers et, d’autre part, à dispenser des enseignements en langue étrangère. Cette ouverture, décidée en contrepied du précédent gouvernement, sonna comme un coup de canon en race campagne pour les Etats présents.

Intervention sur la langue et la culture

En matière de soft power, les centres culturels restent classiquement le mode d’intervention privilégié d’un Etat. Mais en Ukraine, pour cette course, tout le monde n’est pas sur la même ligne de départ. En effet, pour bon nombre d’Etats mitoyens de l’Ukraine, cette mosaïque d’identités motive la présence de centres culturels. Ces centres répondent avant tout à une stratégie plus ou moins instinctive qui vise à maintenir un fil d’Ariane historique avec les représentants d’un même peuple au sein de l’Ukraine. Lorsqu’elle est réfléchie, comme bien souvent, cette stratégie permet de développer naturellement un corpus d’ambassadeurs légitimes aux yeux des ukrainiens.

Ainsi, la Pologne, qui reste un cas particulier car l’Ukraine a longtemps fait partie de son territoire, assure ce lien pour près de 150 000 polonais et a ouvert un nouveau centre culturel à Kirovograd le 5 mai 2010. Courant 2011, le consulat polonais entamera également des discussions avec la ville de Lviv pour y créer un nouveau centre. Fin 2010, l’Azerbaïdjan programme l’ouverture d’un centre littéraire à Donetsk, région où résident 20 000 natifs d’Azerbaïdjan, à côté du centre européen d’intégration. Pour la minorité slovaque qui ne représente que 8 500 personnes, une école en langue ukrainienne et slovaque ouvre le 1er septembre 2011 à Uzhgorod où il existe déjà un centre culturel slovaque.

Concernant la Russie, bien que les relations avec l’Ukraine soient parfois houleuses, on ne peut parler de cet Etat sans prendre conscience d’un avantage russe historique. La Russie préserve cet avantage à moyen et surtout long terme dans les actions qu’elle mène sur le champ de bataille. A titre d’exemple, le maillage du territoire en centres culturels n’y fait pas exception. Début 2011, pas moins de 3 nouveaux centres russes pour la science et la culture sont programmés sur les villes d’Odessa, Dniepropetrovsk et Lviv. L’étape la plus importante reste toutefois la ratification d’une convention bipartite le 28 mars 2012. Outre l’ouverture d’autres « succursales »dans les deux pays, celle-ci prévoit, l’intensification des coopérations régionales et internationales dans les domaines humanitaire, scientifique et technique ou culturel, le développement de jumelages et l’organisation de réseaux. Enfin, la convention emporte exemption des droits de douane sur tous biens nécessaires au fonctionnement des centres.

Mélange des genres entre culture et enseignement supérieur, certains pays pensent démultiplier leur influence en installant leur centre au sein même d’universités et susciter ainsi des échanges professoraux et estudiantins. Sur cet axe, la Turquie ouvre en 2011deux centres de la langue et de la culture turque, l’un dans le bâtiment de l’université Borys Grinchenko à Kiev, l’autre dans l’université Ouchinsky à Odessa. Pourtant dotée d’une diaspora certes réduite mais ancienne, le centre culturel israélien suit cette voie et ouvre également un département à l’université de Kherson.

Pour les autres Etats sans minorité historique, l’installation d’un centre culturel est le premier pas vers une coopération moins institutionnelle fondée sur des échanges entre les peuples eux-mêmes. Si la France se range dans ce deuxième groupe, son rayonnement semble apprécié puisqu’elle élargit son réseau en ouvrant le 11 avril 2011 une 10ème alliance française à Donetsk, Oblast qui a vu naitre l’actuel Président Viktor Fedorovytch Ianoukovytch. L’Arabie-Saoudite, quant à elle, cible les 436 000 musulmans d’Ukraine et utilise le centre islamique de Kiev comme porte-voix de son influence. Enfin, le Tadjikistan projette d’ouvrir un centre culturel pour 2012.

Le champ des initiatives en matière culturelle ne se limite pourtant pas aux activités de ces centres. Il peut être occupé de diverses manières pour qu’un pays soit visible. La Russie a, par exemple, choisi d’investir la 6ème édition du festival international du livre à Kiev le 29 juillet 2010 en occupant, sous la qualité d’invité d’honneur, la moitié du salon, pas moins. Autre initiative russe en 2011, c’est sur le sol de Moscou que fut organisé en avril le 1er forum ukrainien de la jeunesse. Parallèlement, le centre culturel français, l’institut Goethe et la chaine européenne Arte ont quant à eux choisi de coopérer avec la télévision nationale pour programmer un « weekend avec Arte » portant notamment sur un concours de courts métrages.

Intervention dans l’enseignement

Indirectement certes, mais plus visiblement porté sur un retour de dividendes, l’enseignement est le second grand domaine d’influence des Etats … le plus âprement disputé. Ceux-ci interviennent par ordre d’intérêt décroissant, dans l’enseignement supérieur par le bais de coopérations universitaires souvent opérées suivant des pratiques de lobbying, puis, plus rarement, dans l’enseignement secondaire.

Pour les Etats employant ce mode d’intervention, on notera que les universités de Kharkiv, Donetsk et Dniepropetrovsk ont par exemple été sélectionnées en 2010 pour recevoir une délégation de 17 universités polonaises. Celles-ci ont présenté leurs programmes, dispensés en polonais et en anglais, leurs conditions d’accès et les opportunités de logement, de bourses et d’emploi. 3000 ukrainiens étudient d’ailleurs déjà en Pologne, représentant ainsi le groupe d’étudiants étrangers le plus important. Très active en ce domaine, la Pologne a discuté le 14 juillet 2010 un accord bilatéral ayant pour objet la création de l’Université d’Europe de l’Est, institut international d’enseignement supérieur commun avec l’Ukraine. Le même mois, la Pologne a également soutenu, avec l’Allemagne et le Canada, l’ouverture de l'École internationale d'été de langue ukrainienne à l'université nationale de Lviv. Enfin, le 15 avril 2011, trois des universités de Kharkiv, dont l’Université Polytechnique et l’Université Karazine créée il y a 206 ans, ont signé un accord de coopération avec l'Université Technique de Lodz (Pologne). Sur le front de l’est, l’Allemagne a, quant à elle, ouvert le 1er septembre 2010 une école dans le centre-ville de Kiev dont l’enseignement est assuré par des pédagogues ukrainiens et allemands.

Même des pays éloignés posent leurs pions sur l’échiquier. Ainsi, le royaume de Jordanie a signé un protocole d’accord sur l’élaboration de programmes et de projets éducatifs avec l’Ukraine le 21 octobre 2010.Le 26 octobre 2011, le Vietnam a signé un accord portant sur l’accueil de ses étudiants et le 22 novembre de la même année, le Président Viktor Yanukovych rapporta la signature imminente d’un accord bilatéral de reconnaissance des diplômes entre la Turquie et l’Ukraine.

Concernant les Etats-Unis, leurs axes d’intervention sont très ciblés. Ils portent à la fois sur les méthodes d’apprentissage en anglais et sur l’utilisation des nouvelles technologies. Ainsi, le 20 avril 2010, à la veille du décret de Dmytro Tabachnyk, des méthodes d’apprentissage en anglais ont été présentées par le TESOL – Ukraine à l’occasion d’une conférence rassemblant des enseignants ukrainiens et des scientifiques représentant 76 institutions d’enseignement supérieur dont notamment des spécialistes issus des Etats-Unis. Puis, le 22 juin, le projet Bibliomist fut déployé en partenariat avec l’IREX (International Research and Exchange Council), l’USAID et le ministère ukrainien de la culture et du tourisme. Financé par un don de la fondation Bill Gates à hauteur de 25 M. $ et recevant la mise à disposition gratuite par Microsoft de logiciels pour 4,4 M. $, le projet vise à équiper les bibliothèques universitaires et leur donner accès aux nouvelles technologies de l’information. Le 20 janvier 2011, le centre d’innovation Microsoft a créé un site web permettant de consulter les archives numériques de livres anciens imprimés entre le XVIème et le XVIIIème siècle tirés de la bibliothèque de l’université nationale Taras Shevchenko à Kiev. Enfin, le 14 février : un centre de ressource à l’université de Rivne, ayant pour objectif d’enseigner les technologies modernes de traduction de l’anglais, fut ouvert avec l’appui du département de presse, éducation et culture de l’ambassade des USA. Il sera utile de rappeler que le gouvernement a lancé le 6 mai 2011 un plan de réforme sur 4 ans de 10,5 milliards de Hryvna (UAH) portant notamment sur l’enseignement des langues et l’apprentissage de l’informatique. Mais le même mois, le Président Yanukovych, se ravisant peut-être, a également approuvé un amendement du parlement interdisant la privatisation de petites entreprises d’Etat et notamment les librairies, bibliothèques et maisons d’édition.

Concernant l’Union, sous la présidence de l’Ukraine au Conseil de l’Europe, les ministres européens de l'éducation ont signé le « Protocole de Kiev » fixant les priorités et les objectifs clés de la réforme de l'enseignement scolaire en Europe pour les 10-15 prochaines années.
Pour la Russie, Etat le plus avancé sur ces questions, 6 établissements d’enseignement supérieur russe ont déjà leurs « succursales » en Ukraine et un groupe de travail chargé de contrôler la qualité des enseignements doit être mis en place à l’initiative d’une commission intergouvernementale russe et ukrainienne sur l’éducation. Une branche de l’université de l’Eglise russe orthodoxe doit d’ailleurs ouvrir en Ukraine. En 2010, la signature d’un accord de reconnaissance mutuelle des diplômes délivrés par une liste d’universités russes et ukrainiennes était également à l’ordre du jour. Cette coopération débouche bien évidemment sur les plus hauts niveaux d’enseignement puisque le 20 octobre 2011 fut ouvert un centre de recherche nano technologique et nanoélectronique russo ukrainien.

Sur le plan de l’enseignement secondaire, la Russie est également présente. A titre d’exemple, un concept de réforme de l'éducation, signé le 7 février 2011 par Dmytro Tabachnyk, assez fraichement accueilli par les professionnels de l’enseignement, a prévu de séparer l’enseignement de la littérature russe de la littérature étrangère, qui représente déjà ¾ des cours ; l’objectif affirmé étant de le dispenser à nouveau en langue originelle dans un 2ème temps. Dans la même veine plus en amont, tous les districts de Kiev doivent prévoir des écoles et des crèches où la langue russe sera parlée. Enfin, Moscou envisage de mettre à disposition des écoles des manuels scolaires en langue russe dans le cadre du programme fédéral de langue russe qui prévoit également des financements à la clef.


L’arrivée d’un outsider


On pourrait penser que l’avantage russe se traduise en victoire. Pourtant, le Président Yanukovych déclara le 31 août 2010 que les relations Chine Ukraine étaient une priorité nationale et que les coopérations à venir pourraient toucher notamment les échanges culturels et l’éducation. Nous tromperions-nous en pensant que l’arrivée de cet outsider, compétiteur de 1er plan, annoncé en présence du Président Hu Jintao à Washington, fut vécue comme une forfaiture par Moscou ? Certes, les yeux du crocodile étaient déjà visibles, la Chine  ayant ouvert trois instituts Confucius : le 1er à Louhansken 2007 puis Kiev et Kharkiv en 2008, mais rien ne laissait présager l’ampleur de l’attaque. Si un dernier institut complétant le dispositif fut ouvert à Nikolaïev  le 15 juin 2011, c’est sur le domaine de l’enseignement que l’activité fut la plus intense. En 2011, un accord de coopération devait être signé entre l'Institut de Pédagogie de Mianyang dans la province du Sichuan et l'Université nationale Taras Shevchenko de Kiev portant sur l’accueil d’étudiants à l'Académie Nationale de Musique de l'Ukraine, l’Université Nationale de la Culture et des Arts et l’Université Nationale Karazine de Kharkiv. En cette année 2011, paru également la 1ère édition d’un almanach d’études et recherches scientifiques ukrainien portant sur les domaines de coopération bilatérale avec la Chine. Enfin, le premier Vice-ministre de l'éducation, Yevhen Sulima, rapporta aux médias, d’une part, que le quota d’échanges interuniversitaires serait augmenté dès 2013 avec pour priorités les domaines des sciences des matériaux, de la mécanique, de la construction navale, de l'aéronautique, de la biotechnologie et l'étude de la langue elle-même et, d’autre part, que l’exécution de thèses de 3ème cycle serait effectuée sous la double direction de professeurs chinois et ukrainiens. Précisions d’importance, en 2012, 60 accords de coopération étaient déjà signés directement entre universités et, sur près de 50 000 étudiants étrangers, le 1er groupe, constitué de 8 500 chinois, étudiait à Kiev, Kharkiv et Odessa. Comparé aux 1000 étudiants ukrainiens qui étudient en Chine, ce groupe représente l’équivalent de la minorité slovaque en Ukraine. L’Ukraine a en outre bien calculé la manne financière que représentent ces étudiants étrangers issus de 134 nationalités : 100 M$ par an en recettes directes à quoi il faut ajouter le logement, la nourriture … soit 75% de plus. Aussi prévoit-il de doubler le nombre de chinois accueillis dans les deux années à venir. Conforté, l’ambassadeur de Chine en Ukraine, Zhang Xiyun, a déclaré le 6 janvier 2012 que son pays était très intéressé par la formation de ses citoyens dans les universités ukrainiennes dont le niveau est reconnu comme étant élevé. Parole traduites en actes puisque l’autorité aérienne chinoise a décidé d’augmenter à 28 vols par semaine les liaisons entre les deux pays.

Beaucoup plus étonnantes sont les interventions de la Chine dans l’enseignement secondaire. En 2012, un nouvel accord de coopération dans le domaine de l’éducation prévoit un développement de celle-ci par des programmes et des manuels sur des sujets d’intérêt commun, des échanges d’élèves visant à approfondir la compréhension mutuelle entre les peuples et l’organisation d’un concours de langue chinoise. Il reste cependant un point de blocage car les écoles sont gérées par les collectivités locales et celles-ci gardent un droit d’autonomie. Les collectivités locales sont d’ailleurs appelées à bénéficier très prochainement d’un grand chantier de réforme et de modernisation de l’Etat que sera la décentralisation comme l’a souligné le Président Yanukovych. Loin s’en faut, 16 000 ordinateurs ont été offerts cet été par la chine aux écoles du secondaire dont 1 300 destinées à celles de Kharkiv. Sans aller jusqu’à les scanner, ne serait-ce que par curiosité, ne faut-il voir dans cette initiative que de la philanthropie ?

Conclusion

A l’aube de son affirmation, l’identité ukrainienne semble trouver une indépendance économique dans une zone géographique dont le barycentre se trouverait entre la Russie et la Chine. Mais cette identité ne s’affirmera pas sans indépendance politique dont le barycentre, lui, se trouve entre l’Europe et la Russie. C’est très précisément ce que pensent 56% des députés de la Rada, tous bords confondus, comme le révèle un sondage de 2011 effectuépar le Centre d'études sociologiques et politiques « Sotsiovymir» et l’institut international pour la démocratie.

Pour l’heure, l’Ukraine joue sur les deux tableaux. En 2011 d’abord, elle a prévu l’ouverture d’un centre culturel à Bakou en Azerbaïdjan où vivent plus de 30 000 ukrainiens. Mais début 2012, elle a également ouvert le « Centre européen pour une Ukraine moderne » à Bruxelles, organisation non-gouvernementale, ayant pour mission d’informer et de prendre des contacts au sein de l’Union pour des futures coopérations notamment sur le plan culturel. Rappelons que l’Ukraine est dans un contexte de profonde réforme de l’éducation et de l’enseignement supérieur. Pour ce dernier secteur, Dmytro Tabachnyk prévoit de diviser par 10 le nombre d’universités et de réduire (économie ou droit) ou d’augmenter (informatique et technologies de l’information) le numerus clausus des domaines d’enseignement qu’ils soient porteurs ou non. Cette initiative lui coutera probablement cher car le Président Yanukovych, fort mécontent, a, entre autre, missionné son fidèle procureur pour enquêter sur lui.

Si l’on considère que le cœur de la Russie est en Europe, alors la construction russo-européenne n’appelle qu’à s’exprimer, à s’organiser et joindre ses forces pour soutenir l’Ukraine à acquérir sa place future sur l’échiquier mondial. Ainsi, sauf à n’intégrer que la moitié de l’Ukraine dans l’Union européenne, la langue sera probablement la première porte des concessions réciproques avec la Russie. Or, l’Union européenne ne pourra exercer une politique communautaire de soft power sur le terrain de l’enseignement et de la culture en Ukraine sans la penser et la coordonner en amont avec ses Etats membres. Rappelons néanmoins que la Chine surveille le développement des relations Union Ukraine, elle qui a multiplié par 35 ses exportations vers ce pays en 10 ans.

Parce qu’il n’est d’Etat Nation sans justice ni droit, il appartient au préalable à l’Ukraine de faire le premier pas en s’engageant de bonne foi dans les réformes institutionnelles que l’Europe ne cesse d’appeler de ses vœux.

Ce champ de bataille de l’influence aura l’avantage de nous rappeler que la langue et la culture ne sont pas des barrières mais des ponts. Mémorisons seulement qu’Odessa, principale ville d’Ukraine et carrefour commercial historique, est devenue le port connu qu’elle est aujourd’hui par l’œuvre d’un Maire passé Gouverneur-général de la Nouvelle-Russie, ayant reçu ses charges du Tsar Alexandre 1er lui-même, Armand-Emmanuel du Plessis, duc de Richelieu et petit-neveu du Cardinal ; et qu’en cette ville, rapporte Alexandre Pouchkine, on y parlait la langue d’une minorité … le français.

Jérôme COUFFY

Arabischer Ultraimperialismus

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Arabischer Ultraimperialismus

Ex: http://sachedesvolkes.wordpress.com/

Der arabischen Reaktion, den feudalistisch-wahabitischen Verbündeten der USA und der EU, Katar und Saudi Arabien laufen die westlichen Kriegsvorbereitungen gegen das nationalprogressive Regime in Syrien noch zu schleppend, Auch eines der Lieblingskinder europäischer Phantasten, die sich einen liberalen „arabischen Frühling“ herbeihalluzinieren – Tunesien – dessen Staatsführung in der Hand von Islamisten ist, drängt wie Katar und Saudi Arabien auf einen arabischen Kriegseinsatz in Syrien. Dagegen hat sich nun doch etwas überraschend die Muslimbruderschaft in Ägypten ausgesprochen und sich dabei verbal der iranischen, russischen und chinesischen Position angenähert. Der ägyptische Präsident Mursi tritt nun für eine friedliche Beilegung des Konfliktes ein. Im Gegensatz zu Moskau, Peking und Teheran geht es Mursi aber um einen „Regime Change“ von dem laut dem Ägypter die syrische Assad-feindliche Muslimbruderschaft profitieren soll.

Die Golfreaktionäre möchten in der Region natürlich nicht nur Bashar Al-Assad und die nationalistisch-sozialistische Baath-Partei stürzen und dabei die Alawiten und Christen in Syrien massakrieren, sondern darüber hinaus einen Religionskrieg zwischen Sunniten und Schiiten entzünden. Weitere Kriegsgebiete wären der Iran, der Irak, Libanon, Bahrain und wohl auch die Türkei, wo Assad unter der Bevölkerung große Sympathien genießt, zudem gehören etwa 20 bis 30 Prozent der Türken der alevitischen Glaubensrichtung an, die mit den Alawiten in Syrien verbandelt ist. Die Kriegsträume der besten Verbündeten der sogenannten „Westlichen Wertegmeinschaft“ im Nahen Osten dienen also der Entfachung eines großen regionalen Krieges.

Die gestiegene Anzahl von Todesopfern des Bürgerkrieges in Syrien gerade in den letzten Tagen dürfte auf das Drängen der arabischen Reaktion nach einem arabischen Bruderkrieg zurückzuführen sein. Die hetzerische Propagandamaschinerie von Al Jazeera und Al Arabiya weckt unter den Sunniten zudem die Furcht vor einer schiitischen Einflussnahme durch den Iran. Der Terror der wahabitischen, salafistischen und sonstigen Gruppierungen hat über Syrien hinaus zudem längst den Irak und den Libanon erreicht.

Dies alles hindert im „freien“ Westen die NATO-Propagandisten und Gutmenschen freilich nicht daran weiterhin das Märchen vom „Schlächter“ Assad zu verbreiten, der irgendwie wohl gar den „Weltfrieden“ gefährden soll. Besorgnisserregend sei vor allem die prosyrische Einflussnahme des Iran, während man zu dem Terror der Al-Kaida-ähnlichen Gruppierungen weitestgehend schweigt oder die salafistischen Terrorgruppen gar als „Freiheitskämpfer“ und „Demokraten“ glorifiziert.

Nun zeigt sich nicht nur das sie sogenannte „Arabische Liga“ sondern auch zahlreiche sunnitische Islamisten – die dem Westen bisher als „größte Bedrohung“ des westlichen „Freiheitsbegriffes“ und der „marktkonforme Demokratie“ (Angela Merkel) galten – nichts weiter als die wichtigsten Herrschaftsinstrumente des Imperialismus im Nahen Osten und Nordafrika sind. Dies hatte sich insbesondere in Libyen gezeigt, wo eine Allianz arabischer Feudalreaktionäre, sunnitischer Islamisten und antinationaler Separatisten durch die Unterstützung der NATO, Frankreichs, Großbritannien und der USA, das einst unter Gaddafi reiche Land in Chaos, Krieg und Verarmung stürzten.

Die arabische Reaktion, salafistische Terrorgruppen, sowie die Muslimbrüder vertreten im Nahen Osten einen wilden Ultraimperialismus, der den USA, der BRD, Frankreich und Großbritannien nur noch den Vorwurf entgegenzubringen hat nicht imperialistisch und kriegsentschlossen genug gegen Syrien, den Iran oder die Hisbollah im Libanon vorzugehen. Das hochgradig reaktionäre Programm ist dabei auf Völker- und Religionsmord gegen Schiiten, Christen, Alawiten, Aleviten, Drusen und andere Gruppen ausgerichtet.

Verfasser: Sozrev

jeudi, 11 octobre 2012

Aux USA on a déjà prévu un Moyen Orient sans Israël

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Aux USA on a déjà prévu un Moyen Orient sans Israël !!!

par Mireille DELAMARE

Ex: http://www.polemia.com/    

Un article étonnant qui mérite, bien sûr, investigations et vérifications. Prélevé sur le site iranien francophone IRIB, publié en pleine campagne électorale américaine, il prévoit des changements stratégiques et géopolitiques insoupçonnables. « Alors que Paris, Londres, Berlin prennent stupidement leurs désirs pour des réalités et planifient l’après-Assad en Syrie, à Washington on a déjà envisagé l’après-Israël dans un rapport intitulé : " Preparing For A Post Israel Middle East " (se préparer pour un Moyen-Orient post-Israël). » De quoi s’agit-il ?
Géopolitique fiction, canular, argument purement électoral, intox ? Le rapport, sinon sérieux, semble authentique si l’on tient compte des fonctions très officielles de ses auteurs. A les en croire, « la disparition du régime judéo-sioniste est sérieusement envisagée à Washington et pas seulement à Téhéran. »
Polémia

IRIB – Alors que Paris, Londres, Berlin prennent stupidement leurs désirs pour des réalités et planifient l’après-Assad en Syrie, à Washington on a déjà envisagé l’après-Israël dans un rapport intitulé : « Preparing For A Post Israel Middle East » (se préparer pour un Moyen-Orient post-Israël). Cette analyse de 82 pages a été réalisée à la demande de la communauté du renseignement américain regroupant pas moins de 16 agences dont le budget annuel dépasse les 70 milliards de dollars. Preuve donc que la disparition du régime sioniste est sérieusement envisagée à Washington et pas seulement à Téhéran.

Ce document « Preparing For A Post Israel Middle East » conclut que les intérêts nationaux américains et israéliens divergent fondamentalement. Les auteurs de ce rapport affirment qu’Israël est actuellement la plus grande menace pour les intérêts nationaux américains car sa nature et ses actions empêchent des relations normales entre les Etats-Unis et les pays arabes et musulmans et dans une mesure croissante avec la communauté internationale.

Cette étude a [donc] été réalisée à la demande de la communauté du renseignement américain comprenant 16 agences avec un budget annuel de 70 milliards de dollars. Cette communauté du renseignement comprend les départements de la marine, de l’armée de terre, de l’armée de l’air, des corps de Marines, des garde-côtes, le ministère de la défense et agence de renseignement, les départements de l’Energie, de la sécurité intérieure, l’Etat, le Trésor, l’agence de lutte anti-drogue, le FBI, l’agence de sécurité nationale, l’agence de renseignement géo spécial, l’agence de reconnaissance nationale et la CIA.

Parmi les conclusions de ce rapport on trouve :

 

  • Israël, compte tenu de son occupation brutale [et] sa bellicosité, ne peut pas être sauvé, tout comme le régime d’Apartheid de l’Afrique du Sud n’a pu l’être alors même qu’Israël a été le seul pays « occidental » à entretenir des relations diplomatiques jusqu’en 1987 avec l’Afrique du Sud et a été le dernier pays à se joindre à la campagne de boycott avant que le régime ne s’effondre ;
  • la direction israélienne est de plus en plus éloignée des réalités politiques, militaires [et] économiques du Moyen-Orient en accroissant son soutien aux 700.000 colons illégaux vivant en Cisjordanie occupée ;
  • le gouvernement de coalition post-travailliste Likoud est profondément complice et influencé par le pouvoir politique et financier des colons et devra faire face à de plus en plus de soulèvements civils domestiques avec lesquels le gouvernement américain ne doit pas s’associer ou s’impliquer ;
  • le Printemps arabe et le réveil islamique a, dans une large mesure, libéré une grande partie des 1,2 milliard d’Arabes et Musulmans pour lutter contre ce qu’une très grande majorité considère comme une occupation européenne illégale, immorale et insoutenable de la Palestine et de la population indigène  ;
  • le pouvoir arabe et musulman qui s’étend rapidement dans la région comme en témoignent le Printemps arabe, le réveil islamique et la montée en puissance de l’Iran, se fait simultanément – bien que préexistant – avec le déclin de la puissance et de l’influence américaines, et le soutien des Etats-Unis à un Israël belliqueux et oppressif devient impossible à défendre ou  à concrétiser compte tenu des intérêts nationaux américains comprenant la normalisation des relations avec les 57 pays islamiques ;
  • l’énorme ingérence d’Israël dans les affaires intérieures des Etats-Unis par l’espionnage et des transferts illégaux d’armes : cela comprend le soutien à plus de 60 « organisations majeures » et approximativement 7.500 fonctionnaires américains qui obéissent aux diktats d’Israël et cherchent à intimider les médias et les organisations gouvernementales ; cela ne devrait plus être toléré ;
  • le gouvernement américain n’a plus les ressources financières ni le soutien populaire pour continuer à financer Israël. Ce n’est plus envisageable d’ajouter aux plus de 3 mille milliards de dollars d’aide directe ou indirecte d’argent des contribuables versés à Israël depuis 1967, ces derniers s’opposant à ce que l’armée américaine continue de s’impliquer au Moyen-Orient. L’opinion publique américaine ne soutient plus le financement et les guerres étatsuniennes largement perçues comme illégales pour le compte d’Israël. Cette opinion est de plus en plus partagée en Europe, en Asie et au sein de l’opinion publique internationale ;
  • les infrastructures d’occupation ségrégationniste d’Israël sont la preuve d’une discrimination légalisée et de systèmes de justice de plus en plus séparés et inégaux qui ne doivent plus être directement ou indirectement financés par les contribuables américains ou ignorés par les gouvernements des Etat-Unis ;
  • Israël a échoué comme Etat démocratique autoproclamé et le soutien financier et politique américain ne changera pas sa dérive comme Etat paria international ;
  • les colons juifs manifestent de plus en plus un violent racisme rampant en Cisjordanie soutenu par le gouvernement israélien devenu leur protecteur et leur partenaire ;
  • de plus en plus de juifs américains sont contre le sionisme et les pratiques israéliennes, inclus les assassinats et les brutalités à l’encontre des Palestiniens vivant sous occupation, les considérant comme des violations flagrantes du droit américain et international et cela soulève des questions au sein de la communauté juive américaine, eu égard à la responsabilité de protéger (R2P) (1) des civils innocents vivant sous occupation ;
  • l’opposition internationale à un régime de plus en plus d’Apartheid se fait l’écho de la défense des valeurs humanitaires américaines ou des attentes américaines dans le cadre de des relations bilatérales avec les 193 pays membres de l’ONU.

Le rapport se termine en préconisant d’éviter des alliances rapprochées auxquelles s’oppose la majeure partie du monde entier et qui condamnent les citoyens américains à en supporter les conséquences.

A l’évidence Israël va se précipiter sur ce rapport bientôt publié pour faire pression sur les deux candidats à la présidentielle américaine, Obama et Romney, pour voir qui des deux en minimisera le plus les conclusions, s’engageant même à le ranger au placard en promettant d’accroître l’aide financière et militaire à l’entité coloniale judéo-sioniste fossoyeuse de l’Empire américain.

Mireille Delmarre
IRIB (iran French Radio)
3/09/2012

Note de la rédaction : voir http://en.wikipedia.org/wiki/Responsibility_to_protect

Correspondance Polémia – 25/09/2012

The Strategy To Challenge Globalism

The Strategy To Challenge Globalism

Natella Speranskaya

mercredi, 10 octobre 2012

En Syrie l’OTAN vise le gazoduc

L’art de la guerre : en Syrie l’OTAN vise le gazoduc

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La déclaration de guerre, aujourd’hui, n’est plus d’usage. Pour faire la guerre il faut par contre encore trouver un casus belli. Comme le projectile de mortier qui, parti de Syrie, a fait 5 victimes en Turquie. Ankara a riposté à coups de canons, tandis que le parlement a autorisé le gouvernement Erdogan à effectuer des opérations militaires en Syrie. Un chèque en blanc pour la guerre, que l’Otan est prête à encaisser. Le Conseil atlantique a dénoncé « les actes agressifs du régime syrien à la frontière sud-orientale de l’Otan », prêt à déclencher l’article 5 qui engage à assister avec la force armée le pays membre attaqué. Mais déjà est en acte le « non-article 5 » -introduit pendant la guerre contre la Yougoslavie et appliqué contre l’Afghanistan et la Libye- qui autorise des opérations non prévues par l’article 5, en dehors du territoire de l’Alliance.

Eloquentes sont les images des édifices de Damas et Alep dévastés par de très puissants explosifs : œuvre non pas de simples rebelles, mais de professionnels de la guerre infiltrés. Environ 200 spécialistes des forces d’élite britanniques Sas et Sbs –rapporte le Daily Star-  opèrent depuis des mois en Syrie, avec des unités étasuniennes et françaises. La force de choc est constituée par un ramassis armé de groupes islamistes (jusqu’à hier qualifiés par Washington de terroristes) provenant d’Afghanistan, Bosnie, Tchétchénie, Libye et autres pays. Dans le groupe d’Abou Omar al-Chechen –rapporte l’envoyé du Guardian à Alep- les ordres sont donnés en arabe, mais doivent être traduits en tchétchène, tadjik, turc, en dialecte saoudien, en urdu, français et quelques autres langues. Munis de faux passeports (spécialité de la Cia), les combattants affluent dans les provinces turques d’Adana et du Hatay, frontalières de la Syrie, où la Cia a ouvert des centres de formation militaire. Les armes arrivent surtout par l’Arabie saoudite et le Qatar qui, comme en Libye, fournit aussi des forces spéciales. Le commandement des opérations se trouve à bord de navires Otan dans le port d’Alexandrette. Pendant ce temps,  sur le Mont Cassius, au bord de la Syrie, l’Otan construit une nouvelle base d’espionnage électronique, qui s’ajoute à la base radar de Kisecik et à celle aérienne d’Incirlik. A Istanbul a été ouvert un centre de propagande où des dissidents syriens, formés par le Département d’état Usa, confectionnent les nouvelles et les vidéos qui sont diffusées par des réseaux satellitaires.

La guerre Otan contre la Syrie est donc déjà en acte, avec le motif officiel d’aider le pays à se libérer du régime d’Assad. Comme en Libye, on a fiché un coin dans les fractures internes pour provoquer l’écroulement de l’état, en instrumentalisant la tragédie dans laquelle les populations sont emportées. Le but est le même : Syrie, Iran et Irak ont signé en juillet 2011 un accord pour un gazoduc qui, d’ici 2016, devrait relier le gisement iranien de South Pars, le plus grand du monde, à la Syrie et ainsi à la Méditerranée. La Syrie où a été découvert un autre gros gisement près de Homs, peut devenir un hub de couloirs énergétiques alternatifs à ceux qui traversent la Turquie et à d’autres parcours, contrôlés par les compagnies étasuniennes et européennes. Pour cela on veut la frapper et l’occuper.

C’est clair, en Turquie, pour les 129 députés (un quart) opposés à la guerre et pour les milliers de gens qui ont manifesté avec le slogan « Non à l’intervention impérialiste en Syrie ».

Pour combien  d’Italiens est-ce clair, au parlement et dans le pays ?[1]

 

Edition de mardi 9 octobre 2012 de il manifesto

http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20121009/manip2pg/14/manip2pz/329867/

Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio

[1] Même question, évidemment, pour les députés et population français –et britanniques- qui participent par leurs impôts notamment aux opérations clandestines des forces spéciales en Syrie, NdT.

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Historique du grand jeu gazier

Une première lecture de la carte du gaz révèle que celui-ci est localisé dans les régions suivantes, en termes de gisements et d’accès aux zones de consommation :

  1. Russie : Vyborg et Beregvya
  2. Annexé à la Russie : Turkménistan
  3. Environs plus ou moins immédiats de la Russie : Azerbaïdjan et Iran
  4. Pris à la Russie : Géorgie
  5. Méditerranée orientale : Syrie et Liban
  6. Qatar et Égypte.

Carte des gisements de gaz et de pétrole, des infrastructures ainsi que des gazoducs et oléoducs du Moyen-Orient

Moscou s’est hâté de travailler sur deux axes stratégiques : le premier est la mise en place d’un projet sino-russe à long terme s’appuyant sur la croissance économique du Bloc de Shanghai ; le deuxième visant à contrôler les ressources de gaz. C’est ainsi que furent jetées les bases des projets South Stream et Nord Stream, faisant face au projet étasunien Nabucco, soutenu par l’Union européenne, qui visait le gaz de la mer Noire et de l’Azerbaïdjan. S’ensuivit entre ces deux initiatives une course stratégique pour le contrôle de l’Europe et des ressources en gaz.

Pour la Russie :

Le projet Nord Stream relie directement la Russie à l’Allemagne en passant à travers la mer Baltique jusqu’à Weinberg et Sassnitz, sans passer par la Biélorussie.

Le projet South Stream commence en Russie, passe à travers la la mer Noire jusqu’à la Bulgarie et se divise entre la Grèce et le sud de l’Italie d’une part, et la Hongrie et l’Autriche d’autre part.

Pour les États-Unis :

Le projet Nabucco part d’Asie centrale et des environs de la Mer Noire, passe par la Turquie où se situent les infrastructures de stockage, puis parcours la Bulgarie, traverse la Roumanie, la Hongrie, arrive en Autriche et de là se dirige vers la République Tchèque, la Croatie, la Slovénie et l’Italie. Il devait à l’origine passer en Grèce, mais cette idée avait été abandonnée sous la pression turque.

Nabucco était censé concurrencer les projets russes. Initialement prévu pour 2014, il a dû être repoussé à 2017 en raison de difficultés techniques. À partir de là, la bataille du gaz a tourné en faveur du projet russe, mais chacun cherche toujours à étendre son projet à de nouvelles zones.

Cela concerne d’une part le gaz iranien, que les États-Unis voulaient voir venir renforcer le projet Nabucco en rejoignant le point de groupage de Erzurum, en Turquie ; et de l’autre le gaz de la Méditerranée orientale : Syrie, Liban, Israël.

Or en juillet 2011, l’Iran a signé divers accords concernant le transport de son gaz via l’Irak et la Syrie. Par conséquent, c’est désormais la Syrie qui devient le principal centre de stockage et de production, en liaison avec les réserves du Liban. C’est alors un tout nouvel espace géographique, stratégique et énergétique qui s’ouvre, comprenant l’Iran, l’Irak, la Syrie et le Liban. Les entraves que ce projet subit depuis plus d’un an donnent un aperçu du niveau d’intensité de la lutte qui se joue pour le contrôle de la Syrie et du Liban. Elles éclairent du même coup le rôle joué par la France, qui considère la Méditerranée orientale comme sa zone d’influence historique, devant éternellement servir ses intérêts, et où il lui faut rattraper son absence depuis la Seconde Guerre mondiale. En d’autres termes, la France veut jouer un rôle dans le monde du gaz où elle a acquis en quelque sorte une « assurance maladie » en Libye et veut désormais une « assurance-vie » à travers la Syrie et le Liban.

Quant à la Turquie, elle sent qu’elle sera exclue de cette guerre du gaz puisque le projet Nabucco est retardé et qu’elle ne fait partie d’aucun des deux projets South Stream et Nord Stream ; le gaz de la Méditerranée orientale semble lui échapper inexorablement à mesure qu’il s’éloigne de Nabucco.

L’axe Moscou-Berlin

Pour ses deux projets, Moscou a créé la société Gazprom dans les années 1990. L’Allemagne, qui voulait se libérer une fois pour toutes des répercussions de la Seconde Guerre mondiale, se prépara à en être partie prenante ; que ce soit en matière d’installations, de révision du pipeline Nord, ou de lieux de stockage pour la ligne South Stream au sein de sa zone d’influence, particulièrement en Autriche.

La société Gazprom a été fondée avec la collaboration de Hans-Joachim Gornig, un allemand proche de Moscou, ancien vice-président de la compagnie allemande de pétrole et de gaz industriels qui a supervisé la construction du réseau de gazoducs de la RDA. Elle a été dirigée jusqu’en octobre 2011 par Vladimir Kotenev, ancien ambassadeur de Russie en Allemagne.

Gazprom a signé nombre de transactions avec des entreprises allemandes, au premier rang desquelles celles coopérant avec Nord Stream, tels les géants E.ON pour l’énergie et BASF pour les produits chimiques ; avec pour E.ON des clauses garantissant des tarifs préférentiels en cas de hausse des prix, ce qui revient en quelque sorte à une subvention « politique » des entreprises du secteur énergétique allemand par la Russie.

Moscou a profité de la libéralisation des marchés européens du gaz pour les contraindre à déconnecter les réseaux de distribution des installations de production. La page des affrontements entre la Russie et Berlin étant tournée, débuta alors une phase de coopération économique basée sur l’allégement du poids de l’énorme dette pesant sur les épaules de l’Allemagne, celle d’une Europe surendettée par le joug étasunien. Une Allemagne qui considère que l’espace germanique (Allemagne, Autriche, République Tchèque, Suisse) est destiné à devenir le cœur de l’Europe, mais n’a pas à supporter les conséquences du vieillissement de tout un continent, ni celle de la chute d’une autre superpuissance.

Les initiatives allemandes de Gazprom comprennent le joint-venture de Wingas avec Wintershall, une filiale de BASF, qui est le plus grand producteur de pétrole et de gaz d’Allemagne et contrôle 18 % du marché du gaz. Gazprom a donné à ses principaux partenaires allemands des participations inégalées dans ses actifs russes. Ainsi BASF et E.ON contrôlent chacune près d’un quart des champs de gaz Loujno-Rousskoïé qui alimenteront en grande partie Nord Stream ; et ce n’est donc pas une simple coïncidence si l’homologue allemand de Gazprom, appelé « le Gazprom germanique », ira jusqu’à posséder 40 % de la compagnie autrichienne Austrian Centrex Co, spécialisée dans le stockage du gaz et destinée à s’étendre vers Chypre.

Une expansion qui ne plait certainement pas à la Turquie qui a cruellement besoin de sa participation au projet Nabucco. Elle consisterait à stocker, commercialiser, puis transférer 31 puis 40 milliards de m³ de gaz par an ; un projet qui fait qu’Ankara est de plus en plus inféodé aux décisions de Washington et de l’OTAN, d’autant plus que son adhésion à l’Union européenne a été rejetée à plusieurs reprises.

Les liens stratégiques liés au gaz déterminent d’autant plus la politique que Moscou exerce un lobbying sur le Parti social-démocrate allemand en Rhénanie-du-Nord-Westphalie, base industrielle majeure et centre du conglomérat allemand RWE, fournisseur d’électricité et filiale d’E.ON.

Cette influence a été reconnue par Hans-Joseph Fell, responsable des politiques énergétiques chez les Verts. Selon lui quatre sociétés allemandes liées à la Russie jouent un rôle majeur dans la définition de la politique énergétique allemande. Elles s’appuient sur le Comité des relations économiques de l’Europe de l’Est —c’est-à-dire sur des entreprises en contact économique étroit avec la Russie et les pays de l’ex Bloc soviétique—, qui dispose d’un réseau très complexe d’influence sur les ministres et l’opinion publique. Mais en Allemagne, la discrétion reste de mise quant à l’influence grandissante de la Russie, partant du principe qu’il est hautement nécessaire d’améliorer la « sécurité énergétique » de l’Europe.

Il est intéressant de souligner que l’Allemagne considère que la politique de l’Union européenne pour résoudre la crise de l’euro pourrait à terme gêner les investissements germano-russes. Cette raison, parmi d’autres, explique pourquoi elle traine pour sauver l’euro plombé par les dettes européennes, alors même que le bloc germanique pourraient, à lui seul, supporter ces dettes. De plus, à chaque fois que les Européens s’opposent à sa politique vis-à-vis de la Russie, elle affirme que les plans utopiques de l’Europe ne sont pas réalisables et pourraient pousser la Russie à vendre son gaz en Asie, mettant en péril la sécurité énergétique européenne.

Ce mariage des intérêts germano-russes s’est appuyé sur l’héritage de la Guerre froide, qui fait que trois millions de russophones vivent en Allemagne, formant la deuxième plus importante communauté après les Turcs. Poutine était également adepte de l’utilisation du réseau des anciens responsables de la RDA, qui avaient pris soin des intérêts des compagnies russes en Allemagne, sans parler du recrutement d’ex-agents de la Stasi. Par exemple, les directeurs du personnel et des finances de Gazprom Germania, ou encore le directeur des finances du Consortium Nord Stream, Warnig Matthias qui, selon le Wall Street Journal, aurait aidé Poutine à recruter des espions à Dresde lorsqu’il était jeune agent du KGB. Mais il faut le reconnaitre, l’utilisation par la Russie de ses anciennes relations n’a pas été préjudiciable à l’Allemagne, car les intérêts des deux parties ont été servis sans que l’une ne domine l’autre.

Le projet Nord Stream, le lien principal entre la Russie et l’Allemagne, a été inauguré récemment par un pipeline qui a coûté 4,7 milliards d’euros. Bien que ce pipeline relie la Russie et l’Allemagne, la reconnaissance par les Européens qu’un tel projet garantissait leur sécurité énergétique a fait que la France et la Hollande se sont hâtées de déclarer qu’il s’agissait bien là d’un projet « européen ». À cet égard, il est bon de mentionner que M. Lindner, directeur exécutif du Comité allemand pour les relations économiques avec les pays de l’Europe de l’Est a déclaré, sans rire, que c’était bien « un projet européen et non pas allemand, et qu’il n’enfermerait pas l’Allemagne dans une plus grande dépendance vis-à-vis de la Russie ». Une telle déclaration souligne l’inquiétude que suscite l’accroissement de l’influence Russe en l’Allemagne ; il n’en demeure pas moins que le projet Nord Stream est structurellement un plan moscovite et non pas européen.

Les Russes peuvent paralyser la distribution de l’énergie en Pologne dans plusieurs pays comme bon leur semblent, et seront en mesure de vendre le gaz au plus offrant. Toutefois, l’importance de l’Allemagne pour la Russie réside dans le fait qu’elle constitue la plate-forme à partir de laquelle elle va pouvoir développer sa stratégie continentale ; Gazprom Germania détenant des participations dans 25 projets croisés en Grande-Bretagne, Italie, Turquie, Hongrie et d’autres pays. Cela nous amène à dire que Gazprom – après un certain temps – est destinée à devenir l’une des plus importantes entreprises au monde, sinon la plus importante.

Dessiner une nouvelle carte de l’Europe, puis du monde

Les dirigeants de Gazprom ont non seulement développé leur projet, mais ils ont aussi fait en sorte de contrer Nabucco. Ainsi, Gazprom détient 30 % du projet consistant à construire un deuxième pipeline vers l’Europe suivant à peu près le même trajet que Nabucco ce qui est, de l’aveu même de ses partisans, un projet « politique » destiné à montrer sa force en freinant, voire en bloquant le projet Nabucco. D’ailleurs Moscou s’est empressé d’acheter du gaz en Asie centrale et en mer Caspienne dans le but de l’étouffer, et de ridiculiser Washington politiquement, économiquement et stratégiquement par la même occasion.

Gazprom exploite des installations gazières en Autriche, c’est-à-dire dans les environs stratégiques de l’Allemagne, et loue aussi des installations en Grande-Bretagne et en France. Toutefois, ce sont les importantes installations de stockage en Autriche qui serviront à redessiner la carte énergétique de l’Europe, puisqu’elles alimenteront la Slovénie, la Slovaquie, la Croatie, la Hongrie, l’Italie et l’Allemagne. À ces installations, il faut ajouter le centre de stokage de Katrina, que Gazprom construit en coopération avec l’Allemagne, afin de pouvoir exporter le gaz vers les grands centres de consommation de l’Europe de l’ouest.

Gazprom a mis en place une installation commune de stockage avec la Serbie afin de fournir du gaz à la Bosnie-Herzégovine et à la Serbie elle-même. Des études de faisabilité ont été menées sur des modes de stockage similaires en République Tchèque, Roumanie, Belgique, Grande-Bretagne, Slovaquie, Turquie, Grèce et même en France. Gazprom renforce ainsi la position de Moscou, fournisseur de 41 % des approvisionnements gaziers européens. Ceci signifie un changement substantiel dans les relations entre l’Orient et l’Occident à court, moyen et long terme. Cela annonce également un déclin de l’influence états-unienne, par boucliers antimissiles interposés, voyant l’établissement d’une nouvelle organisation internationale, dont le gaz sera le pilier principal. Enfin cela explique l’intensification du combat pour le gaz de la côte Est de la Méditerranée au Proche-Orient.

Nabucco et la Turquie en difficulté

Nabucco devait acheminer du gaz sur 3 900 kilomètres de la Turquie vers l’Autriche et était conçu pour fournir 31 milliards de mètres cubes de gaz naturel par an depuis le Proche-Orient et le bassin caspien vers les marchés européens. L’empressement de la coalition OTAN-États-unis-France à mettre fin aux obstacles qui s’élevaient contre ses intérêts gaziers au Proche-Orient, en particulier en Syrie et au Liban, réside dans le fait qu’il est nécessaire de s’assurer la stabilité et la bienveillance de l’environnement lorsqu’il est question d’infrastructures et d’investissement gaziers. La réponse syrienne fût de signer un contrat pour transférer vers son territoire le gaz iranien en passant par l’Irak. Ainsi, c’est bien sur le gaz syrien et libanais que se focalise la bataille, alimentera t-il Nabucco ou South Stream ?

Le consortium Nabucco est constitué de plusieurs sociétés : allemande (REW), autrichienne (OML), turque (Botas), bulgare (Energy Company Holding), et roumaine (Transgaz). Il y a cinq ans, les coûts initiaux du projet étaient estimées à 11,2 milliards de dollars, mais ils pourraient atteindre 21,4 milliards de dollars d’ici 2017. Ceci soulève de nombreuses questions quant à sa viabilité économique étant donné que Gazprom a pu conclure des contrats avec différentes pays qui devaient alimenter Nabucco, lequel ne pourrait plus compter que sur les excédents du Turkménistan, surtout depuis les tentatives infructueuses de mainmise sur le gaz iranien. C’est l’un des secrets méconnus de la bataille pour l’Iran, qui a franchi la ligne rouge dans son défi aux USA et à l’Europe, en choisissant l’Irak et la Syrie comme trajets de transport d’une partie de son gaz.

Ainsi, le meilleur espoir de Nabucco demeure dans l’approvisionnement en gaz d’Azerbaïdjan et le gisement Shah Deniz, devenu presque la seule source d’approvisionnement d’un projet qui semble avoir échoué avant même d’avoir débuté. C’est ce que révèle l’accélération des signatures de contrats passés par Moscou pour le rachat de sources initialement destinées à Nabucco, d’une part, et les difficultés rencontrées pour imposer des changements géopolitiques en Iran, en Syrie et au Liban d’autre part. Ceci au moment où la Turquie s’empresse de réclamer sa part du projet Nabucco, soit par la signature d’un contrat avec l’Azerbaïdjan pour l’achat de 6 milliards de mètres cubes de gaz en 2017, soit par l’annexion de la Syrie et du Liban avec l’espoir de faire obstacle au transit du pétrole iranien ou de recevoir une part de la richesse gazière libano-syrienne. Apparemment une place dans le nouvel ordre mondial, celui du gaz ou d’autre chose, passe par rendre un certain nombre de service, allant de l’appui militaire jusqu’à l’hébergement du dispositif stratégique de bouclier antimissiles.

Ce qui constitue peut-être la principale menace pour Nabucco, c’est la tentative russe de le faire échouer en négociant des contrats plus avantageux que les siens en faveur de Gazprom pour North Stream et South Stream ; ce qui invaliderait les efforts des États-Unis et de l’Europe, diminuerait leur influence, et bousculerait leur politique énergétique en Iran et/ou en Méditerranée. En outre, Gazprom pourrait devenir l’un des investisseurs ou exploitants majeurs des nouveaux gisements de gaz en Syrie ou au Liban. Ce n’est pas par hasard que le 16 août 2011, le ministère syrien du Pétrole à annoncé la découverte d’un puits de gaz à Qara, près de Homs. Sa capacité de production serait de 400 000 mètres cubes par jour (146 millions de mètres cubes par an), sans même parler du gaz présent dans la Méditerranée.

Les projets Nord Stream et South Stream ont donc réduit l’influence politique étasunienne, qui semble désormais à la traîne. Les signes d’hostilité entre les États d’Europe centrale et la Russie se sont atténués ; mais la Pologne et les États-Unis ne semblent pas disposés à renoncer. En effet, fin octobre 2011, ils ont annoncé le changement de leur politique énergétique suite à la découverte de gisements de charbon européens qui devraient diminuer la dépendance vis-à-vis de la Russie et du Proche-Orient. Cela semble être un objectif ambitieux mais à long terme, en raison des nombreuses procédures nécessaires avant commercialisation ; ce charbon correspondant à des roches sédimentaires trouvées à des milliers de mètres sous terre et nécessitant des techniques de fracturation hydraulique sous haute pression pour libérer le gaz, sans compter les risques environnementaux.

Participation de la Chine

La coopération sino-russe dans le domaine énergétique est le moteur du partenariat stratégique entre les deux géants. Il s’agit, selon les experts, de la « base » de leur double véto réitéré en faveur de la Syrie.

Cette coopération ne concerne pas seulement l’approvisionnement de la Chine à des conditions préférentielles. La Chine est amenée à s’impliquer directement dans la distribution du gaz via l’acquisition d’actifs et d’installations, en plus d’un projet de contrôle conjoint des réseaux de distribution. Parallèlement, Moscou affiche sa souplesse concernant le prix du gaz, sous réserve d’être autorisé à accéder au très profitable marché intérieur chinois. Il a été convenu, par conséquent, que les experts russes et chinois travailleraient ensemble dans les domaines suivants : « La coordination des stratégies énergétiques, la prévision et la prospection, le développement des marchés, l’efficacité énergétique, et les sources d’énergie alternative ».

D’autres intérêts stratégiques communs concernent les risques encourus face au projet du « bouclier antimissiles » US. Non seulement Washington a impliqué le Japon et la Corée du Sud mais, début septembre 2011, l’Inde a aussi été invitée à en devenir partenaire. En conséquence, les préoccupations des deux pays se croisent au moment où Washington relance sa stratégie en Asie centrale, c’est-à-dire, sur la Route de la soie. Cette stratégie est la même que celle lancée par George Bush (projet de Grande Asie centrale) pour y faire reculer l’influence de la Russie et de la Chine en collaboration avec la Turquie, résoudre la situation en Afghanistan d’ici 2014, et imposer la force militaire de l’OTAN dans toute la région. L’Ouzbékistan a déjà laissé entendre qu’il pourrait accueillir l’OTAN, et Vladimir Poutine a estimé que ce qui pourrait déjouer l’intrusion occidentale et empêcher les USA de porter atteinte à la Russie serait l’expansion de l’espace Russie-Kazakhtan-Biélorussie en coopération avec Pékin.

Cet aperçu des mécanismes de la lutte internationale actuelle permet de se faire une idée du processus de formation du nouvel ordre international, fondé sur la lutte pour la suprématie militaire et dont la clé de voute est l’énergie, et en premier lieu le gaz.

Le gaz de la Syrie

Quand Israël a entrepris l’extraction de pétrole et de gaz à partir de 2009, il était clair que le bassin Méditerranéen était entré dans le jeu et que, soit la Syrie serait attaquée, soit toute la région pourrait bénéficier de la paix, puisque le 21ème siècle est supposé être celui de l’énergie propre.

Selon le Washington Institute for Near East Policy (WINEP, le think tank de l’AIPAC), le bassin méditerranéen renferme les plus grandes réserves de gaz et c’est en Syrie qu’il y aurait les plus importantes. Ce même institut a aussi émis l’hypothèse que la bataille entre la Turquie et Chypre allait s’intensifier du fait de l’incapacité Turque à assumer la perte du projet Nabucco (malgré le contrat signé avec Moscou en décembre 2011 pour le transport d’une partie du gaz de South Stream via la Turquie).

La révélation du secret du gaz syrien fait prendre conscience de l’énormité de l’enjeu à son sujet. Qui contrôle la Syrie pourrait contrôler le Proche-Orient. Et à partir de la Syrie, porte de l’Asie, il détiendra « la clé de la Maison Russie », comme l’affirmait la Tsarine Catherine II, ainsi que celle de la Chine, via la Route de la soie. Ainsi, il serait en capacité de dominer le monde, car ce siècle est le Siècle du Gaz.

C’est pour cette raison que les signataires de l’accord de Damas, permettant au gaz iranien de passer à travers l’Irak et d’accéder à la Méditerranée, ouvrant un nouvel espace géopolitique et coupant la ligne de vie de Nabucco, avaient déclaré « La Syrie est la clé de la nouvelle ère ».

Source : Mecanoblog

Turkije: van kemalistisch-autoritaire tot islamitisch-autoritaire staat

Turkije: van kemalistisch-autoritaire tot islamitisch-autoritaire staat

Paul Vanden Bavière

Ex: http://www.uitpers.be/

 
Turkije: van kemalistisch-autoritaire tot islamitisch-autoritaire staat
 

Peter Edel, De diepte van de Bosporus. Een biografie van Turkije, uitg. EPO, Berchem, 2012. 344 blz., met kleurenfoto’s. € 24

Sedert 2006, toen hij in Istanbul  in het huwelijk trad met een Turkse, woont Peter Edel in de voormalige Ottomaanse hoofdstad. En maakt hij daar geschiedenis mee, waarover hij in De diepte van de Bosporus, op een boeiende en vlot lezende manier verslag uitbrengt. Tien jaar nadat de islami(s)tische Partij voor Gerechtigheid en Ontwikkeling (AKP) van premier Recep Tayyip Erdogan aan de macht kwam, is ze er nu immers in geslaagd de macht van het kemalistische establishment te breken.

Het had anders gekund voor Peter Edel. Hij studeerde immers fotografie en design in Amsterdam – met succes zoals we merken aan de prachtige kleurenfoto’s in zijn boek – en was dus niet voorbestemd om een specialist in Turkse hedendaagse geschiedenis te worden. Het toeval hielp hier een handje mee. Peter Edel hield het niet bij de kunst, maar publiceerde in 2002, ook bij de uitgeverij EPO, De schaduw van de ster: Zionisme en antizionisme, een boek over Israël dat in Nederland ophef maakte. Van een Turkse vriendin in Amsterdam vernam hij dat een uitgever in Istanbul het boek in Turkse vertaling wou uitgeven. Diezelfde vriendin stelde hem voor aan een vriendin van haar uit Istanbul die op bezoek was. Toen Edel enkele maanden later zijn Turkse uitgever in Istanbul opzocht, ontmoette hij die vriendin-van-een-vriendin opnieuw. En van het een kwam het ander. Zo werd Peter Edel freelance journalist en fotograaf in Turkije.

De politieke veranderingen waren toen al aan de gang, maar ze hadden evengoed  kunnen doodbloeden, want een procureur probeerde in 2008 de AKP te doen verbieden op grond van antiseculiere activiteiten, wat net niet lukte. Stof om over te schrijven was er ook met de nu bijna muurvast zittende onderhandelingen over de toetreding van Turkije tot de Europese Unie en ook over de Koerdische kwestie, die sedert het mislukken van geheime besprekingen tussen de regering en de Koerdische Arbeiderspartij (PKK) vorig jaar opnieuw in een gewelddadige fase is beland.

Staatsideologie

De Turkse republiek werd na de ondergang van het Ottomaanse rijk ten gevolge van de eerste wereldoorlog in 1923 opgericht door Mustafa Kemal, een militair, die daarvoor beloond werd met de titel Atatürk, de vader der Turken. Het werk van de man is indrukwekkend te noemen. Hij schoeide het land op westerse leest en legde voor jaren de officiële staatsideologie vast: Turkije werd een seculiere islamitische eenheidstaat, met één volk en één taal, een populistische staat, met een door de staat geleide economie. Na de dood van Atatürk riep het leger zich uit tot de behoeder van de erfenis van de autoritaire leider, hierbij gesteund door een elite van politici, politiemannen, professoren en andere intellectuelen, journalisten, rechters enz. Samen vormden die de zgn. “diepe staat”, die ondanks de democratisering sedert de jaren 1950 alles onder controle hield en de partijen  binnen de door haar uitgezette lijnen hield. Als politici die lijnen overschreden pleegde het leger staatsgrepen, echte in 1960, 1971 en 1980 en een verkapte in 1997, waarbij de islamistische premier Necmettin Erbakan tot aftreden werd gedwongen. Turkije bleef, ondanks vrije verkiezingen, een autoritaire staat, met beperkingen op de vrijheid van mening en op de vrijheid in het algemeen.

Nochtans kwamen er al vlug afwijkingen van de leer. Vanaf de jaren 1950 maakte de islam geleidelijk aan een terugkeer. In 1980 gingen de militairen zelfs zover de islam openlijk te gaan steunen om het communisme te bestrijden. Maar eigenlijk is Turkije geen echte seculiere staat. Atatürk heeft wel de grote verdienste dat hij de Turken de kans gaf ongelovig of op zijn minst seculier te leven. Turkije was wél een islamitische staat, waarbij de staat de islam controleerde. Naast één taal en één volk moest Turkije ook één godsdienst hebben, en aanvankelijk ook één leider, Atatürk. Als islamitische staat was er nooit een gelijke status voor christenen, alevieten en andere religieuze minderheden. De christenen werden op grote schaal verdreven en weggepest. Ook nu nog worden de weinige resterenden gediscrimineerd. Als islamitische staat ligt de “Armeense kwestie”, dan ook gevoelig. Alhoewel de genocide van 1915 werd uitgevoerd door de leiders van de Ottomaanse staat, en de republiek er niets mee te maken had.

De door de staat geleide economie begon ook al in de jaren 1950 geleidelijk te wijken en is, merkwaardig genoeg, zonder veel verzet van het leger en de kemalisten vrijwel geheel verdwenen om plaats te maken voor een neoliberale economie, waarin ook geen plaats meer is voor gelijkheid.

Één volk, één taal

Het principe van één staat, één volk, één taal is de oorzaak, al van kort na de uitroeping van de republiek, geweest van talrijke opstanden van de Koerden. Dat principe is immers negationistisch: het negeert het bestaan van minderheden, die maar Turks moeten leren, hun identiteit vergeten, en zich integreren in de Turkse maatschappij. De laatste opstand, die nog altijd voortduurt, begon in 1984 toen de Koerdische Arbeiderspartij van Abdullah Öcalan een gewapende opstand begon.

In het kader van de strijd tegen de Koerden organiseerde de “diepe staat” doodseskaders en maakte die staat zich schuldig aan moord en foltering op grote schaal. Iedereen wist dat, maar dat kwam met volle geweld in het openbaar door het Susurluk-incident, ten gevolge van een auto-ongeval in 1996 in het plaatsje Susurluk. Daar botsten een dure Mercedes 600 SEL en een vrachtwagen. In de Mercedes vielen drie doden: een politieofficier en directeur van de politieacademie in Istanbul, Hüseyin Kocodag, een gezochte extreem-rechtse Grijze Wolf en gezochte gangster, Abdullah Catli, die o.a. verantwoordelijk was voor de moord op meer dan 100 Koerdische zakenmannen, die de PKK zouden hebben gefinancierd, en diens vriendin en gewezen schoonheidskoningin Gonca Us. De enige overlevende was Sedat Bucak, een Koerdische clanleider die met duizenden Koerdische dorpswachters de PKK bestreed.
Het gaf geen mooi beeld bij de publieke opinie toen bleek dat de Turkse leiders zich volop in de illegaliteit stortten en samenwerkten met maffiabazen en drugssmokkelaars. Wel toonde het aan hoever de staat wou gaan in het bestrijden van een op zich zeker gerechtvaardigd streven van een volk voor op zijn minst culturele autonomie. Was het niet Erdogan zelf die in 2008 tijdens een bezoek aan Duitsland tegen de Turken daar zei dat “assimilatie een misdaad tegen de menselijkheid” was?

Het Susurluk-incident droeg bij tot de deligitimering van de politieke klasse, die al in diskrediet was geraakt door een catastrofale economische politiek, die tot torenhoge inflatie en achtereenvolgende devaluaties van Turkse lira leidde. Zo werd de weg geopend naar de heerschappij van de AKP.
Die zorgde aanvankelijk voor enkele doorbraken in de onderhandelingen met de EU over toetreding, maar sedert 2005 ligt het proces grotendeels plat. Nochtans heeft Erdogan veel te danken aan de EU, die opkomt voor godsdienstvrijheid. Van die Europese houding heeft Erdogan geprofiteerd om islamiserende maatregelen te nemen, zoals het toelaten van de hoofddoek in openbare gebouwen zoals universiteiten. Het heeft hem electoraal geen windeieren gelegd bij de grotendeels gelovige Turkse bevolking, vooral dan in Centraal-Anatolië, waar hij op de financiële steun kan rekenen van islamitische zakenmannen, die tot dan toe altijd in de schaduw hadden gestaan van hun grootstedelijke collega’s, die gemakkelijker op staatssteun en andere voordelen konden rekenen.

Ook pleitte de EU voor toezicht van de regering op het leger, wat de positie van de militairen  verzwakte. Geen wonder dat dit tot geruchten over het beramen van staatsgrepen door ontevreden officieren leidde. Dat leidde leidde tot de zgn. Ergenekon-affaire, in het kader waarvan vele officieren en andere leden van de “diepe staat” werden opgepakt en gevangen werden gezet in afwachting van een uitspraak in hun proces, die nog lang op zich kan laten wachten. Uiteindelijk wierp de Turkse militaire top vorig jaar uit protest de handdoek in de ring. Waarvan Erdogan gebruik maakte om ze te vervangen en zijn mannen op hun plaatsen te benoemen. Als men daarbij bedenkt dat Erdogan er via een referendum in slaagde greep te krijgen op het gerechtelijk apparaat, dan weet men dat hij momenteel de sterke man is.

Opent dat de weg naar een echt democratisch Turkije? Peter Edel heeft daar sterke twijfels over. “In haar beleid suggereert de AKP dat ze de Turken een autoritair regime wil opleggen”, schrijft hij (blz. 315). En er redenen genoeg om hem te geloven. Er is de islamisering van de republiek, de repressie van alle oppositie (Koerden, militairen…) wat in Turkije mogelijk is onder een wet die “schuld door associatie” bestraft. Nu al zitten ongeveer 8.000 Koerden gevangen omdat ze het eens zijn met bepaalde princiepen van de Koerdische PKK. Hetzelfde geldt voor journalisten, intellectuelen die relaties hadden met personen die in het kader van Ergenekon-onderzoek opgepakte werden. Ook de vrijheid van mening en meningsuiting worden strak aan banden gehouden: een honderdtal journalisten zit in Turkije in de cel, honderden websites zijn geblokkeerd door de regering, en ga zo maar door.

Het ziet er naar uit dat Erdogan elk verzet tegen zijn regering en politiek wil uitschakelen. Ook vroegere medestanders moeten het volgens Peter Edel momenteel ontgelden. Zo werkte Erdogan in zijn strijd tegen de kemalisten jaren lang samen met Fethüllah Gülen de leider van een oerconservatie, anticommunistische en sterk pro-Amerikaanse Turkse organisatie met goede relaties met de CIA. Fethüllah Gülen zelf week na de staatsgreep van 1980 uit naar de Verenigde Staten omdat hij vreesde dat de militairen hem zou aanpakken. Hij woont er nog steeds. In Turkije begonnen zijn aanhangers politie, justitie en onderwijs te infiltreren. Nu de kemalisten uitgeschakeld zijn, ziet het er naar uit dat Erdogan de Gülenbeweging aan het aanpakken is. Vanuit zijn omgeving is al gesuggereerd dat er geen parallelle organisatie kan worden getolereerd. Met andere woorden concurrentie is ongewenst. Het hoofdstuk over de Gülenbeweging in het boek is niet alleen boeiend, maar ook interessant. Ook voor Europa omdat Gülen ondanks zijn fundamentalisme zich niet zonder succes heeft weten op te werpen als een gematigde islam-stem en in dat kader zelfs Israël, waarmee Erdogan op ramkoers zit, ondanks zijn vroeger openlijk antisemitisme, is gaan cultiveren. Vele Amerikaanse en Europese intellectuelen zijn, zoals ook blijkt uit opiniestukken in kranten, gecharmeerd geraakt door hem.

De vraag is of Erdogan erin zal slagen zijn project door te zetten of bij de volgende algemene verkiezingen zal worden afgestraft. Hij heeft Turkije wel een economische boost gegeven, maar Peter Edel meent dat de economie kwetsbaar blijkt. Op andere vlakken heeft Erdogan ronduit tegenslagen gehad. Hij is er niet in geslaagd van zijn “Koerdische opening” iets te maken. Ook zijn project van “zero conflict” , of de zgn. neo-Ottomaande diplomatie van zijn minister van Buitenlandse Zaken Ahmet Davutoglu, met zijn buren staat op de helling. Zowel met Grieken als Armenen geraken de problemen maar niet uit het slop. Vooral zijn bruuske wending in de goede relaties met Syrië, door de kant van de opstandelingen te kiezen, lijkt een ramp te worden: de relaties met Syrië, Irak en Iran, drie belangrijke handelspartners, zijn verzuurd met als gevolg dat ze de PKK steun zijn gaan geven. Met als gevolg dat de Koerden een bruggenhoofd hebben veroveren in de Turkse provincie Hakkari aan de grenzen met Irak en Iran en Turkije aan de grens met Syrië onder druk zetten – de Syrische president Bashar al-Assad heeft hen daar immers feitelijke autonomie gegeven. In eigen land heeft Erdogan er naast de Koerden ook vijanden bij gekregen onder de alevieten, zowat 20% van de bevolking (waaronder ook veel Koerden).

Eigenaardig genoeg is Erdogan erin geslaagd het kemalistisch establishment zeer klappen toe te dienen, maar op een aantal punten loopt zijn politiek gelijk met deze van dat establishment. Dat is zo in de Koerdische kwestie, en uiteindelijk ook in zijn relaties met de Arabische wereld.